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Salita al Monte Carmelo

  • 1. Salita al Monte Carmelo - Argomento 1

    6 APR 2022 · SALITA AL MONTE CARMELO Tratta del modo in cui un’anima potrà disporsi per giungere in breve all’unione divina. Dà avvisi e una dottrina, tanto ai principianti quanto ai proficienti1, molto utile affinché sappiano sciogliersi da tutto ciò che è temporale e non impigliarsi in ciò che è spirituale, restando nella somma nudità e libertà di spirito, quale si richiede per la divina unione, composta dal padre fra Giovanni della Croce, Carmelitano Scalzo. ARGOMENTO ARGOMENTO Tutta la dottrina che intendo trattare in questa Salita del Monte Carmelo è inclusa nelle seguenti canzoni e in esse è contenuto il modo di salire fino alla cima del Monte, cioè l’alto stato di perfezione che qui chiamiamo unione dell’anima con Dio. E poiché intendo procedere fondando su di esse ciò che dirò, ho voluto porle qui insieme, affinché insieme si intenda e veda tutta la sostanza di ciò che devo scrivere; tuttavia nel corso della spiegazione converrà porre a sé ciascuna canzone ed egualmente i versi di ciascuna di essa, secondo che lo richiederà la materia e la spiegazione. Dice dunque così: CANZONI nelle quali l’anima canta la felice ventura che le toccò, di passare, attraverso la notte oscura della fede, nella sua nudità e purgazione, all’unione con l’Amato. In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata stando già la mia casa addormentata; allo scuro e sicura per la scala segreta, travestita, o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz’altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. E questa mi guidava più certa della luce meridiana là dove mi aspettava chi ben io conoscevo in luogo ove nessuno si mostrava. O notte che guidasti! O notte amabile più dell’aurora! O notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata! Sul mio petto fiorito, che per lui solo intatto si serbava, lì rimase dormiente ed io l’accarezzavo e il ventaglio di cedri l’arieggiava. E l’aura dei bastioni mentre quei suoi capelli discioglievo con la mano serena nel collo mi feriva e tutti i miei sensi sospendeva. Dimentica, acquietata, il volto reclinai sull’Amato, tutto cessò e rimasi, lasciando ogni mia cura, circondata da gigli, obliata.
    3m 56s
  • 2. Prologo

    6 APR 2022 · 1. Per poter spiegare e far comprendere questa notte oscura attraverso la quale l’anima passa per giungere alla divina luce dell’unione perfetta dell’amore di Dio, qual è possibile in questa vita, occorreva altra maggior luce di scienza ed esperienza della mia; poiché tante e tanto profonde sono le tenebre ed i travagli, sia spirituali sia temporali, attraverso cui ordinariamente sogliono passare le anime felici per poter giungere a quest’alto stato di perfezione, che né basta scienza umana per saperlo intendere, né esperienza per saperlo dire: poiché solo colui che l’attraversa saprà sentirlo, ma non dirlo. 2. E pertanto, per dir qualcosa di questa notte oscura, non mi fiderò né dell’esperienza né della scienza, poiché l’una e l’altra possono venir meno ed ingannare; ma, non tralasciando d’aiutarmi con entrambe, per quanto possibile, debbo valermi — per tutto ciò che, con il favore divino, dovrò dire, almeno per ciò che è più importante ed oscuro ad intendersi — della divina Scrittura, guidandoci con la quale non potremo errare, poiché chi parla in essa è lo Spirito Santo. E se io in qualcosa errerò, non intendendo bene ciò che dirò, sia con la Scrittura che senza, non è mia intenzione discostarmi dal sano senso e dalla dottrina della santa madre la Chiesa cattolica, poiché, in tal caso, totalmente mi assoggetto e sottometto non solo al suo ordine, ma a chiunque ne giudicasse con miglior ragione. 3. Il motivo che mi ha mosso non è la possibilità che vedo in me per cosa tanto ardua, bensì la fiducia che ho nel Signore che mi aiuti a dire qualcosa, per la grande necessità che ne hanno molte anime. Esse infatti, iniziando il cammino della virtù, e volendo nostro Signore porle in questa notte oscura affinché attraverso essa passino alla divina unione, non progrediscono; a volte non volendo entrare in essa o non lasciandovisi condurre; a volte perché non si comprendono e perché mancano loro guide idonee ed accorte che le conducano fino alla cima. Così è penoso vedere molte anime alle quali Dio dà talento e favori per progredire e che, se volessero farsi animo, giungerebbero a quest’alto stato, e invece rimangono in un basso modo di rapporto con Dio, perché non vogliono o non sanno sciogliersi da quegli inizi, o non si indirizzano né si insegna loro a sciogliersene. E se anche, infine, nostro Signore le favorisca tanto da farle procedere senza questi o altri modi, vi giungeranno molto più tardi, con maggior travaglio e con minor merito, non essendosi sottomesse a Dio lasciandosi porre liberamente nel puro e sicuro cammino dell’unione. Poiché, sebbene sia vero che Dio le conduce — e può condurle senza esse —, tuttavia non si lasciano condurre; così progrediscono meno, resistendo a chi le conduce, e non meritano tanto, perché non applicano la volontà e con ciò stesso soffrono di più. Poiché vi sono anime che, invece di lasciare che Dio le aiuti, piuttosto l’impediscono con il loro indiscreto operare o riluttare, divenendo simili ai bambini che battono i piedi e piangono quando la madre vuol prenderli in braccio, ostinandosi a camminare da sé, e cosí non possono muoversi o, se procedono, lo fanno solo al passo di bambino. 4. Affinché, dunque, sia i principianti che i proficienti sappiano lasciarsi condurre da Dio, quando egli voglia farli progredire, con il suo aiuto daremo dottrina ed avvisi, affinché sappiano intendere o, almeno, lasciarsi condurre da Dio. Infatti alcuni padri spirituali, non avendo conoscenza né esperienza di queste vie, sono soliti più intralciare e danneggiare tali anime che non aiutarle nel cammino, divenendo simili ai costruttori di Babilonia, che, avendo da usare un materiale adatto, ne davano ed usavano di molto diversi, non conoscendo la lingua, cosicché non si costruiva nulla (Gn. 11, 7-9). È perciò cosa dura e penosa in tali casi che un’anima non si comprenda né trovi chi la comprenda; potrà infatti accadere che Dio giunga ad un’anima attraverso un altissimo cammino di oscura contemplazione e aridità e che ad essa paia di perdersi e che, stando così, piena di oscurità e travagli, angustie e tentazioni, incappi in chi le dica, come i consolatori di Giobbe (2, 11-13), che si tratta di melanconia, o sconforto, o carattere, o che potrà trattarsi di qualche sua occulta malizia, per la quale Dio l’ha abbandonata; e così son soliti giudicare che quell’anima dev’essere stata molto cattiva se le accadono tali cose. 5. E vi sarà anche chi le dirà che sta tornando indietro, in quanto non trova come prima gusto né consolazione nelle cose di Dio. E così costoro raddoppiano il travaglio della povera anima; accadrà infatti che la pena maggiore che essa prova sia quella della conoscenza delle proprie miserie, sembrandole di veder chiaro più della luce del giorno di star piena di mali e di peccati, poiché Dio le dà quella luce di conoscenza in quella notte di contemplazione, come poi diremo; e quando incontri qualcuno conforme al suo parere, che le dica che ciò che le accade è per sua colpa, la pena e l’angustia di quest’anima crescono senza limite fino a giungere per lo più ad uno stato peggiore della morte. E non contenti di ciò, siccome questi confessori ritengono che questo stato sia conseguenza di peccati, inducono queste anime a rivangare le loro vite ed a far molte confessioni generali ed a crocifiggerle di nuovo; non intendendo che forse quello non è tempo né di questo né di altro, ma solo di lasciarle nella purificazione nella quale Dio le tiene, consolandole ed incoraggiandole a volere ciò finché Dio lo voglia; poiché fino ad allora, per quanto esse facciano o dicano, non c’è nessun rimedio. 6. Di ciò dovrò poi trattare, con il favore divino, come dunque l’anima deve comportarsi, ed il confessore con essa, e quali segni avrà per riconoscere se quella è la purificazione dell’anima e, se lo è, se del senso o dello spirito, il che è la notte oscura di cui parliamo, e come si potrà riconoscere se si tratta di melanconia o d’altra imperfezione riguardante il senso o lo spirito. Perché alcune anime potranno pensare, esse o i loro confessori, che Dio le conduca per questo cammino della notte oscura della purificazione spirituale e invece si tratterà forse di alcune delle accennate imperfezioni; infatti vi sono pure molte anime che pensano di non pregare e invece lo fanno molto, ed altre che pensano di pregare molto e pregano invece poco più che niente. 7. È una pena che alcune si travaglino ed affatichino molto, e tornino indietro, ponendo il frutto del progredire in ciò che non fa progredire, bensì ostacola, mentre invece altre, con riposo e quiete, vanno progredendo molto. Altre ancora, con i medesimi doni e grazie che Dio dà loro affinché progrediscano, s’impacciano ed ostacolano e non vanno avanti. E molte altre cose accadono in questo cammino a coloro che lo seguono, e godimenti e pene e speranze e dolori: dei quali alcuni procedono dallo spirito di perfezione, altri da quello di imperfezione. Con il favore divino cercheremo dunque di dir qualcosa, affinché ciascuna anima che lo legga procuri di vedere il cammino seguito e quello che le conviene seguire se intende giungere alla cima di questo Monte. 8. E in quanto questa dottrina tratta della notte oscura attraverso la quale l’anima deve andare a Dio, il lettore non si meravigli se le parrà un poco oscura. Il che ritengo accadrà all’inizio della sua lettura; ma, andando avanti, verrà intendendo meglio l’inizio, poiché con un punto si viene spiegando l’altro. E se poi leggerà una seconda volta, comprendendo meglio, il tutto le apparirà più chiaro e la dottrina più sana. E se alcune persone non si troveranno bene con questa dottrina, dipenderà dal mio poco sapere e dal mio basso stile, poiché la materia per sé è buona e molto necessaria. Mi sembra però che, se anche scrivessi più compiutamente e perfettamente di ciò di cui tratto, non ne trarrebbero vantaggio se non i meno, perché qui non si scriveranno cose morali e saporose per tutti quegli spirituali che si dilettano d’andare a Dio attraverso cose dolci e saporose, bensì una dottrina sostanziosa e solida, buona per gli uni e per gli altri, purché cerchino di giungere alla nudità di spirito di cui qui si scrive. 9. Né del resto il mio intento principale è rivolgermi a tutti, ma ad alcune persone della nostra santa religione dell’ordine primitivo del Monte Carmelo, frati e monache, che me l’hanno chiesto ed ai quali Iddio faccia il dono di porli sul sentiero di questo Monte; ed essendo costoro già ben spogli delle cose temporali di questo mondo, intenderanno meglio la dottrina della nudità dello spirito.
    11m 57s
  • 3. Libro1 Cap1-2-3

    6 APR 2022 · LIBRO PRIMO CAPITOLO 1. Riporta la prima strofa. Parla di due diverse notti per le quali passano gli spirituali, secondo le due parti dell’uomo, inferiore e superiore; e spiega la seguente strofa: In una notte oscura d’amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata, stando già la mia casa addormentata. 1. In questa prima strofa l’anima canta la sorte felice e la fortuna che ebbe di uscire da tutte le cose esteriori, e dagli appetiti ed imperfezioni che vi sono nella parte sensitiva dell’uomo per il disordine della sua ragione. Per capir ciò occorre sapere che, affinché un’anima giunga allo stato di perfezione, ordinariamente prima deve passare attraverso due principali modi di notte, che gli spirituali chiamano purgazioni o purificazioni dell’anima. Le chiamiamo notti perché l’anima, tanto nell’una come nell’altra, cammina come di notte, allo scuro. 2. La prima notte o purgazione è della parte sensitiva dell’anima; di essa si tratta nella presente strofa e si tratterà nella prima parte di questo libro. E la seconda è della parte spirituale, della quale parla la seconda strofa che segue; e di essa pure tratteremo nella seconda e terza parte per quanto riguarda il suo aspetto attivo e, per quanto riguarda quello passivo, nella quarta. 3. E questa prima notte appartiene ai principianti allorché Dio comincia a porli nello stato di contemplazione, e di essa partecipa anche lo spirito, come diremo a suo tempo. E la seconda notte, o purificazione, appartiene a coloro che già sono profìcienti, allorché Dio vuole ormai porli nello stato dell’unione con Dio; e questa è purgazione più oscura e tenebrosa e terribile, come diremo dopo. Spiegazione della strofa 4. In questa strofa l’anima vuole dunque dire che uscì — traendola Dio — solo per amore di lui, infiammata nel suo amore, in una notte oscura, che è la privazione e purgazione di tutti i suoi appetiti sensuali, nei confronti di tutte le cose esteriori del mondo e di quelle che erano dilettevoli alla sua carne, ed anche dei gusti della sua volontà. E tutto ciò avviene nella purgazione del senso. E perciò dice che uscì stando già la sua casa addormentata, cioè la parte sensitiva, essendo ormai tranquilli e addormentati in essa gli appetiti ed essa in questi. Infatti non si esce dalle pene ed angustie delle prigioni degli appetiti finché non si siano smorzati e addormentati. E questo significa che le fu felice ventura / uscire non notata, cioè senza che nessun appetito della sua carne né di altra cosa glielo potesse impedire. E inoltre perché uscì di notte, cioè privandola Dio di tutte queste cose, il che per lei era notte. 5. E questo fu felice ventura, ossia che Dio l’abbia posta in questa notte, donde le derivò tanto bene, e nella quale ella non avrebbe indovinato d’entrare, perché, da soli, non si riesce a vuotarsi di tutti gli appetiti per venire a Dio. 6. Questa è dunque la spiegazione della strofa. Ed ora dovremo proseguire scrivendo intorno a ciascun verso, spiegando ciò che ci proponiamo. E il medesimo stile si tiene con le altre strofe, come ho detto nel prologo: prima si riporterà ciascuna strofa e la si spiegherà, e poi si farà lo stesso con ciascun verso. CAPITOLO 2 Spiega la natura di questa notte oscura attraverso la quale l’anima dice d’esser giunta all’unione. In una notte oscura. 1. Per tre motivi possiamo dire che si chiama notte questo passaggio dell’anima all’unione con Dio. Primo, a causa del termine donde l’anima esce, poiché deve procedere privando l’appetito di tutte le cose del mondo che possedeva, negandole; e questa negazione e privazione è come notte per tutti i sensi dell’uomo. Secondo, a causa del mezzo o cammino, attraverso cui l’anima deve andare a questa unione, cioè la fede, che pure è oscura per l’intelletto, come notte. Terzo, a causa del termine verso cui va, cioè Dio, il quale ugualmente in questa vita è per l’anima notte oscura. Queste tre notti devono passare attraverso l’anima o, per meglio dire, l’anima attraverso esse, per giungere alla divina unione con Dio. 2. Nel libro di san Tobia (6, 18-22) questi tre modi di notte si raffigurarono attraverso le tre notti che l’angelo comandò al giovane Tobia di lasciar passare prima d’unirsi con la sua sposa. Nella prima gli comandò di bruciare il cuore del pesce nel fuoco, che significa il cuore affezionato e legato alle cose del mondo, che, per cominciare ad andare verso Dio, bisogna bruciare, e purificare di tutto ciò che è creatura con il fuoco dell’amore di Dio. E con questa purgazione si mette in fuga il demonio, che ha potere sull’anima mediante l’attaccamento alle cose corporali e temporali. 3. Nella seconda notte gli disse che sarebbe stato ammesso nella compagnia dei santi patriarchi, che sono i padri della fede. Infatti, passando attraverso la prima notte, che consiste nel privarsi di tutti gli oggetti del senso, l’anima entra poi nella seconda notte, restando sola nella fede — non come escludente la carità, bensì le altre notizie dell’intelletto, come in seguito diremo —, che è cosa che non cade nel senso. 4. Nella terza notte l’angelo gli disse che avrebbe ottenuto la benedizione, cioè Dio, il quale, mediante la seconda notte, che è la fede, va comunicandosi all’anima tanto segretamente e intimamente che per essa è un’altra notte, in quanto tale comunicazione va facendosi molto più oscura delle altre, come poi diremo. E passata questa terza notte, che è compiere la comunicazione di Dio nello spirito, il che ordinariamente avviene in una grande tenebra dell’anima, segue poi l’unione con la sposa, che è la Sapienza di Dio. Come anche l’angelo disse a Tobia, passata la terza notte, si sarebbe congiunto con la sua sposa con timore del Signore; e quando il timore di Dio è perfetto, è perfetto l’amore, il che avviene quando l’anima si trasforma per amore. 5. Queste tre parti della notte sono una sola notte; la quale, come la notte, ha tre parti. Infatti la prima, quella del senso, si paragona alla prima notte, che è quando le cose scompaiono dalla vista. E la seconda, cioè la fede, si paragona alla mezzanotte, che è totalmente scura. E la terza infine, cioè Dio, è ormai vicinissima alla luce del giorno. Ma, per meglio comprendere, verremo trattando di ciascuna di queste cause per se stesse. CAPITOLO 3 Parla della prima causa di questa notte, cioè la privazione dell’appetito in tutte le cose e della ragione per la quale si chiama notte. 1. Chiamiamo qui notte la privazione del gusto nell’appetito di tutte le cose; infatti, così come la notte non è altro che privazione della luce e, per conseguenza, di tutti gli oggetti che si possono vedere mediante la luce, onde la potenza visiva rimane allo scuro e senza nulla, così anche la mortificazione dell’appetito si può chiamare notte per l’anima, poiché, privandosi l’anima del gusto dell’appetito in tutte le cose, rimane come allo scuro e senza nulla. Infatti, così come la potenza visiva mediante la luce si ciba e pasce degli oggetti che si possono vedere, e, spenta la luce, non si vedono, così l’anima mediante l’appetito si pasce e ciba di tutte le cose che secondo le sue potenze si possono gustare; e quando l’appetito sia spento, o, per meglio dire, mortificato, l’anima cessa di pascersi nel gusto di tutte le cose e così rimane, quanto all’appetito, allo scuro e senza nulla. 2. Portiamo qualche esempio per ogni potenza. Quando l’anima priva il suo appetito nel gusto di tutto ciò che il senso dell’udito può dilettare, essa, quanto a questa potenza, resta allo scuro e senza nulla. E privandosi del gusto di tutto ciò che al senso della vista può essere gradevole, anche quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. E privandosi del gusto di ogni soavità di profumi che l’anima può gustare mediante il senso dell’olfatto, ugualmente quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. E negando anche il gusto di tutti i cibi che possano soddisfare il palato, l’anima vi resta allo scuro e senza nulla. E infine, se l’anima si mortifica in tutti i diletti e gradevolezze che possa ricevere dal senso del tatto, allo stesso modo quanto a questa potenza resta allo scuro e senza nulla. Dimodoché l’anima che avesse negato e allontanato da sé il gusto di tutte le cose, mortificando in esse i suoi appetiti, potremo dire che sta come di notte, allo scuro, il che non è altro che un vuoto in essa di tutte le cose. 3. La causa di ciò è che l’anima, come dicono i filosofi, non appena Dio la infonde nel corpo, è come una tavola rasa e liscia, sulla quale non sta impresso nulla; e se non fosse che viene conoscendo attraverso i sensi, per altra via naturalmente non le si comunicherebbe niente. Così, fino a che sta nel corpo, è come chi sta in uno scuro carcere, nel quale non si sa niente se non quello che si riesce a vedere dalle sue finestre, e se attraverso queste non si vedesse niente, niente si vedrebbe in altro modo. Così l’anima, se non fosse per ciò che le si comunica mediante i sensi, che sono le finestre del suo carcere, naturalmente non raggiungerebbe niente per altra via. 4. Pertanto, se essa rifiuta e nega ciò che può ricevere tramite i sensi, possiamo ben dire che resta come all’oscuro e vuota; infatti, come appare chiaro da quanto s’è detto, naturalmente non le può entrare luce da altri passaggi che da quelli detti. Infatti, sebbene in verità non possa cessare di udire, di vedere, di odorare, di gustare e di sentire, se però nega e rifiuta tutto ciò, l’anima non vi fa più caso e non ne è gravata più che se non vedesse né udisse, ecc.; così come chi vuol chiudere gli occhi resterà allo scuro come il cieco che non può vedere. E così dice David in proposito: Pauper sum ego, et in laboribus a iuventute mea. Che significa: «Io sono povero e in travagli fin dalla mia gioventù» (Sal. 87, 16).... (incompleto)
    15m 50s
  • 4. Libro 1 - Capitolo 4

    9 APR 2022 · CAPITOLO 4 Si tratta di quanto sia necessario all’anima passare davvero per questa notte oscura del senso, che è la mortificazione dell’appetito, per procedere verso l’unione con Dio. 1. La ragione per la quale è necessario che l’anima attraversi questa notte oscura di mortificazione degli appetiti e di negazione dei gusti di tutte le cose per giungere alla divina unione con Dio è che tutte le affezioni che essa ha verso le creature davanti a Dio sono pure tenebre; e finché l’anima ne resta rivestita, non ha capacità di essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio, se prima non le respinge da sé, poiché luce e tenebre non possono stare assieme, in quanto, come dice San Giovanni: Tenebrae eum non comprehenderunt; cioè: «le tenebre non poterono ricevere la luce» (1, 5). 2. La ragione è che due contrari, come ci insegna la filosofia, non possono stare in un soggetto; infatti le tenebre, che sono le affezioni verso le creature, e la luce, che è Dio, sono contrari e non hanno tra loro nessuna somiglianza né convenienza, come San Paolo insegnò ai Corinzi (II, 6, 14) dicendo: Quae conventio lucis ad tenebras?, ossia: «Quale convenienza ci può essere tra la luce e le tenebre?»; ne consegue che nell’anima non può albergare la luce della divina unione se prima non se ne scaccino quelle affezioni. 3. Per dimostrare meglio quanto s’è detto occorre sapere che l’affezione ed attaccamento dell’anima verso la creatura eguaglia l’anima stessa con la creatura, e quanto più grande è l’affezione tanto più l’eguaglia e la rende assomigliante, poiché l’amore rende simili chi ama e chi è amato. E perciò David, parlando di coloro che ponevano negli idoli la loro affezione, disse: Similis illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis; che significa: «Saranno simili a loro quelli che vi pongono il loro cuore» (Sal. 113, 8). E così colui che ama la creatura resta in basso come quella creatura, anzi affatto più in basso, poiché l’amore non solo eguaglia ma anche assoggetta all’amante ciò che ama. Ne consegue che, nell’atto stesso in cui l’anima ama qualcosa, si fa incapace della pura unione con Dio e della trasformazione in lui; poiché la bassezza delle creature è molto meno capace dell’altezza del Creatore di quanto non lo siano le tenebre della luce. Infatti tutte le cose della terra e del cielo, paragonate con Dio, sono niente, come dice Geremia con queste parole: Aspexi terram, et ecce vacua erat et nihil; et caelos, et non erat lux in eis: «guardai la terra — dice — ed era vuota, ed era niente; ed i cieli, e vidi che in essi non c’era luce» (4, 23). Dicendo che vide la terra vuota intende che tutte le sue creature erano nulla e che anche la terra era nulla. E dicendo che guardò i cieli e non vi vide luce significa che tutti i lumi del cielo, paragonati a Dio, sono pure tenebre. Dimodoché tutte le creature sono niente e le affezioni ad esse possiamo chiamarle meno che niente, in quanto sono impedimento e privazione della trasformazione in Dio, così come le tenebre sono nulla e meno che nulla, in quanto sono privazione della luce. E così come non può comprendere la luce colui che è nelle tenebre, così non potrà comprendere Dio l’anima che pone nelle creature la sua affezione; e, finché non se ne purghi, non potrà quaggiù possederlo mediante pura trasformazione d’amore, né lassù per chiara visione. E per maggior chiarezza ne parleremo più in particolare. 4. Tutto l’essere delle creature, dunque, paragonato con quello infinito di Dio, è niente. E pertanto l’anima che vi pone la sua affezione, davanti a Dio è anch’essa niente e meno che niente; poiché, come abbiamo detto, l’amore produce eguaglianza e somiglianza e inoltre pone più in basso ciò che ama. E pertanto in nessun modo quest’anima potrà unirsi con l’infinito essere di Dio, in quanto ciò che non è non può convenire con ciò che è. E scendendo in particolare ad alcuni esempi: L’intera bellezza delle creature, confrontata con l’infinita bellezza di Dio, è somma bruttezza, come Salomone dice nei Proverbi: Fallax gratia, et vana est pulchritudo: «ingannevole è la grazia e vana la bellezza» (31, 30). E così l’anima che ha attaccamento alla bellezza di qualsiasi creatura, davanti a Dio è sommamente brutta; e pertanto quest’anima brutta non potrà trasformarsi nella bellezza che è Dio, perché la bruttezza non può pervenire alla bellezza. E l’intera grazia e leggiadria delle creature, confrontata con la grazia di Dio, è somma sgraziataggine e somma scipitezza; e perciò l’anima che s’attacchi alla grazie e leggiadrie delle creature è sommamente sgraziata e scipita davanti agli occhi di Dio; e così non può essere capace dell’infinita grazia e bellezza di Dio, poiché lo sgraziato dista grandemente da chi è infinitamente pieno di grazia. E l’intera bontà delle creature del mondo, confrontata con l’infinita bontà di Dio, si può chiamare malizia. Poiché nulla vi è di buono se non Dio solo (Lc. 18, 19); e pertanto l’anima che pone il suo cuore nei beni del mondo è sommamente cattiva di fronte a Dio. E siccome la malizia non concorda con la bontà, quest’anima non potrà dunque unirsi con Dio che è somma bontà. E l’intera sapienza del mondo e l’abilità umana, confrontata con l’infinita sapienza di Dio, è pura e somma ignoranza, come scrive San Paolo Ai Corinzi dicendo: Sapientiam huius mundi stultitia est apud Deum: «la sapienza di questo mondo davanti a Dio è stoltezza» (I, 3, 19). 5. Pertanto ogni anima che desse qualche importanza a tutto il suo sapere ed abilità per giungere all’unione con la sapienza di Dio, sarebbe sommamente ignorante davanti a Dio e resterebbe molto lontana dalla sua sapienza. Poiché l’ignoranza non sa che cosa è la sapienza, e, come dice San Paolo, questa sapienza a Dio sembra stoltezza. Infatti davanti a Dio coloro che credono di possedere qualche sapere sono molto ignoranti; poiché l’Apostolo dice di costoro scrivendo ai Romani: Dicentes enim se esse sapientes stulti facti sunt; cioè: «ritenendosi saggi divennero stolti» (1, 22). E possiedono la sapienza di Dio solo coloro che, messo da parte il proprio sapere, come bimbi ignoranti vanno con amore al suo servizio. E questo modo di sapienza l’insegnò anche San Paolo Ad Corinthios: Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultus fiat ut sit sapiens; sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum; cioè: «Se qualcuno tra voi si crede saggio, si faccia stolto per divenir saggio, poiché la sapienza di questo mondo davanti a Dio è follia» (I, 3, 18-19). Pertanto, affinché l’anima giunga ad unirsi con la sapienza di Dio, deve piuttosto procedere non sapendo che sapendo. 6. E l’intero dominio e la libertà del mondo, confrontato con la libertà ed il dominio dello spirito di Dio, è somma servitù e angustia e schiavitù. Pertanto l’anima che s’innamora degli onori o di altri simili interessi e della libertà dell’appetirli, davanti a Dio è considerata e trattata non come figlia, ma come basso servo e schiavo, non avendo voluto cogliere la sua santa dottrina che c’insegna che colui il quale vuol essere il maggiore sia il minore e chi vuol essere minore sia maggiore (Lc. 22, 26). E pertanto l’anima non potrà giungere alla reale libertà dello spirito, che perviene alla divina unione, poiché la servitù non può avere nessuna relazione con la libertà, la quale non può trovarsi nel cuore soggetto a questi affetti, in quanto è cuore di schiavo, bensì in quello libero, in quanto cuore di figlio. E questo è il motivo per il quale Sara disse a suo marito Abramo di scacciare la schiava e suo figlio, dicendo che il figlio della schiava non doveva essere erede insieme con il figlio della libera (Gn. 21, 10). 7. E tutti i diletti e gusti della volontà in tutte le cose del mondo, confrontati con tutte le delizie che sono Dio, sono somma pena, tormento e amarezza. E così colui che pone il suo cuore in queste cose, davanti a Dio è tenuto degno di somma pena, tormento e amarezza. E così non potrà giungere alle delizie dell’abbraccio dell’unione con Dio, essendo degno di pena e amarezza. Tutte le ricchezze e glorie dell’intero creato, confrontate con la ricchezza che è Dio, sono somma povertà e miseria. E così l’anima che le ama e possiede è sommamente povera e miserabile davanti a Dio, e perciò non potrà giungere alla ricchezza e gloria che è lo stato della trasformazione in Dio, in quanto il miserabile e povero dista sommamente da ciò che è sommamente ricco e glorioso. 8. Pertanto la divina Sapienza, dolendosi di costoro che si fanno brutti, bassi, miserabili e poveri, in quanto amano ciò che del mondo sembra loro bello e ricco, nei Proverbi rivolge loro questa apostrofe dicendo: O viri, ad vos clamito, et vox mea ad filios hominum. Intelligite parvuli astutiam, et insipientes animadvertite. Audite, quia de rebus magnis locutura sum. E prosegue dicendo: Mecum sunt divitiae et gloria, opes superbae et iustitia. Melior est fructus meus auro et lapide pretioso, et genimina mea argento electo. In viis iustitiae ambulo, in medio semitarum iudicii, ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam; vale a dire: «O uomini, a voi grido e la mia voce si rivolge ai figli degli uomini! Imparate, fanciullini, l’astuzia e la sagacia; e voi stolti state attenti. Udite, poiché intendo parlare di grandi cose. Con me sono le ricchezze e la gloria, le superbe ricchezze e la giustizia. Il frutto che troverete in me è migliore dell’oro e delle pietre preziose; e le mie generazioni — cioè ciò che da me genererete nelle vostre anime — sono migliori dell’argento scelto. Io cammino per le vie della giustizia e attraverso i sentieri dell’equità, per arricchire coloro che mi amano e riempire perfettamente i loro tesori» (8, 4-6; 18-21). Qui la divina Sapienza parla a tutti coloro che pongono il cuore e l’affezione in qualsiasi cosa del mondo, come abbiamo detto...
    13m 50s
  • 5. Libro 1- Capitolo 5

    9 APR 2022 · CAPITOLO 5 Si continua a trattare quanto s’è detto, mostrando con l’autorità della Sacra Scrittura e con immagini quanto sia necessario che l’anima vada da Dio in questa notte oscura della mortificazione dell’appetito in tutte le cose. 1. Da quanto s’è detto si può giungere in qualche modo a comprendere la distanza che c’è tra tutto ciò che le creature sono in sé e ciò che Dio è in sé, e come le anime che pongono la loro affezione in alcune delle creature restino a questa stessa distanza da Dio; poiché, come abbiamo detto, l’amore produce eguaglianza e somiglianza. E sant’Agostino, ben rappresentandosi questa distanza, diceva, parlando con Dio nei Soliloqui: «Misero me, quando potrà la mia pochezza e imperfezione convenire con la tua rettitudine? Tu veramente sei buono ed io cattivo; tu misericordioso ed io empio; tu santo, io miserabile; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu vita, io morte; tu medicina, io infermo; tu somma verità, io tutta vanità». Tutto ciò dice questo Santo3. 2. Pertanto è somma ignoranza dell’anima pensare di poter passare a quest’alto stato di unione con Dio senza prima aver vuotato l’appetito di tutte le cose naturali e soprannaturali che possano ostacolarla, come più avanti spiegheremo; infatti è somma la distanza tra queste e ciò che si dà in tale stato, che è puramente trasformazione in Dio. Perciò nostro Signore, insegnandoci questo cammino, ci disse in San Luca: Qui non renuntiant omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus; che significa: «Colui che non rinunzia a tutte le cose che possiede con la volontà, non può essere mio discepolo» (14, 33). E questo è chiaro, poiché la dottrina che il Figlio di Dio venne ad insegnare fu il disprezzo di tutte le cose per poter ricevere il prezzo dello spirito di Dio in sé; poiché, fintanto che l’anima non se ne scioglie, non ha capacità di ricevere lo spirito di Dio nella pura trasformazione. 3. Di ciò abbiamo una figura nell’Esodo (c. 16, 3-4), dove si legge che Dio non diede ai figli d’Israele il cibo dal cielo, che era la manna, finché non mancò loro la farina che avevano portato dall’Egitto, con ciò facendo intendere che prima conviene rinunciare a tutte le cose, poiché questo cibo degli angeli non conviene al palato che vuol gustare quello degli uomini. Le anime che indugiano e si dilettano in altri gusti estranei si rendono dunque incapaci dello spirito divino; ma anche dispiacciono molto alla Divina Maestà coloro i quali, pretendendo di cibarsi di spirito, non si contentano di Dio solo, ma vogliono mischiarvi l’appetito e l’affezione per altre cose. Il che si fa ben comprendere nel medesimo libro della Sacra Scrittura, dove si dice che, non accontentandosi di quel cibo tanto semplice, appetirono carne e chiesero di mangiarne (ivi, 8-13); e nostro Signore si dispiacque gravemente che essi volessero mischiare un cibo tanto basso e rozzo con un cibo tanto sublime che, sebbene fosse tale, aveva in sé il sapore e la sostanza di tutti i cibi (Sap., 16, 20-21). Perciò, mentre essi avevano ancora il boccone in bocca, come dice David, ira Dei descendit super eos (Sal. 77, 30-31): «l’ira di Dio scese su di loro», gettando fuoco dal cielo e bruciandone molte migliaia; giudicando cosa indegna che appetissero altro cibo mentre dava loro il cibo del cielo. Frontespizio delle Obras Espirituales nell’edizione 1618. 4. O se gli spirituali sapessero quanto bene ed abbondanza di spirito perdono per non voler liberare completamente l’appetito dalle inezie, e come in questo semplice cibo dello spirito ritroverebbero il gusto di tutte le cose se non volessero gustarle! Invece non gustano lo spirito; infatti la ragione per la quale quelli non provavano nella manna il gusto di tutti i cibi è perché non riponevano il loro appetito soltanto in essa. Dimodoché non riuscivano a trovare nella manna tutto quel gusto e quella forza che potevano cercarvi, non perché la manna non l’avesse, ma perché cercavano altre cose. Così colui che vuole amare altra cosa insieme con Dio, senza dubbio tiene Dio in poco conto, poiché pone su una stessa bilancia insieme con Dio ciò che, come abbiamo detto, dista infinitamente da Dio. 5. Si sa bene per esperienza che quando una volontà si affeziona ad una cosa, la considera più di qualsiasi altra, anche molto migliore di essa, se non la gusta quanto l’altra. E se vuole gustare e l’una e l’altra, di necessità deve fare oltraggio alla più importante, poiché le pone su un piano di eguaglianza. E non essendovi alcuna cosa che eguagli Dio, reca grande oltraggio a Dio l’anima che insieme con lui ami altra cosa o vi s’attacchi. E dunque che accadrebbe poi se l’amasse più di Dio? 6. Questo dunque Dio faceva intendere allorché comandava a Mosè di salire sul monte per parlare con lui. Gli comandò non soltanto di salire lui solo, lasciando abbasso i figli d’Israele, ma anche che le bestie non pascolassero di fronte al monte: Nullus ascendat tecum, nee videat quispiam per totum montem, boves quoque et oves non pascant e contra (Es. 34, 3). Facendo così capire che l’anima che deve salire su questo Monte di perfezione per comunicare con Dio, non solo deve rinunziare a tutte le cose e deve lasciarle abbasso, ma nemmeno deve lasciar pascolare gli appetiti, che sono le bestie, di fronte a questo Monte, ossia in altre cose che non siano puramente Dio, nel quale cessa ogni appetito, cioè nello stato di perfezione. È pertanto necessario che il cammino e la salita verso Dio sia una costante cura nel far cessare e mortificare gli appetiti; e l’anima tanto prima vi giungerà quanto più vi si affretterà. E, finché non cessino, l’anima non vi perverrà, anche se eserciti più virtù, perché le manca di acquisirle in perfezione, la quale consiste nel tenere l’anima vuota e nuda e purificata da ogni appetito. E di ciò abbiamo un’immagine molto viva nel Genesi, ove si legge che il patriarca Giacobbe, volendo salire sul monte Betel per edificarvi un altare a Dio sul quale offrirgli sacrifici, prima comandò a tutta la sua gente tre cose: primo, che scacciassero da sé tutti gli dèi stranieri; secondo, che si purificassero; terzo, che mutassero le vesti: Abiicite deos alienos qui in medio vestri sunt, et mundamini ac mutate vestimenta (ivi, 35, 1-2). 7. In queste tre cose si vuol fare intendere ad ogni anima che voglia salire a questo Monte per farvi altare di se stessa — sul quale offra a Dio sacrifìcio di amore puro e lode e puro ossequio — che, prima di salire alla vetta del Monte, deve aver fatto perfettamente queste tre cose. Primo, è necessario che scacci tutti gli dèi stranieri, che sono tutte le affezioni e gli attaccamenti estranei. Secondo, che si purifichi del residuo che questi appetiti hanno lasciato nell’anima mediante la notte oscura del senso di cui diciamo, negandoli e pentendosene continuamente. Terzo, ciò che deve avere per giungere a questo alto Monte è il mutare le vesti. E queste, mediante l’opera delle due prime cose, Dio le muterà da vecchie in nuove, ponendo ormai nell’anima una nuova conoscenza di Dio in Dio — lasciato da parte il vecchio modo umano di conoscere — e un nuovo amore di Dio in Dio, essendo ormai la volontà spoglia di tutti i suoi vecchi desideri e gusti umani; e ponendo l’anima in una nuova cognizione, lasciate ormai da parte le altre vecchie cognizioni e immagini; e facendo venir meno tutto ciò che è dell’uomo vecchio, cioè le capacità dell’essere naturale, il quale si riveste di nuova capacità soprannaturale secondo tutte le sue potenze. Dimodoché il suo operare, da umano che era si volge in divino, ciò che si consegue nello stato di unione, nel quale l’anima non serve altra cosa se non l’altare sul quale Dio è adorato in lode e amore, e solo Dio è in lei. È per ciò che Dio comandava che l’altare nel quale doveva stare l’arca del Testamento fosse vuoto al di dentro (Es. 27, 8), affinché l’anima intenda quanto Dio la voglia vuota da ogni cosa, per essere altare degno sul quale stia la Maestà divina. E in questo altare nemmeno permetteva che vi fosse fuoco estraneo, né che mai vi mancasse quello proprio (Lev. 6, 12-13); tanto che nostro Signore, sdegnato, fece morire proprio davanti all’altare Nadab e Abiud, figli del sommo sacerdote Aronne, perché avevano offerto sul suo altare fuoco estraneo (Lev. 10, 1-2). Ciò affinché intendiamo che l’anima, per essere degno altare, non deve mancare dell’amore di Dio, né deve mescolarvi altro amore estraneo. 8. Dio non consente ad altra cosa di dimorare insieme con lui. Per cui si legge nel primo libro dei Re che, avendo posto i Filistei l’arca del Testamento dove stava il suo idolo, ogni mattina l’idolo si trovava gettato per terra e ridotto in frantumi (5, 2-5). E dove egli è, Dio consente e vuole vi sia solo quell’appetito, che è osservare perfettamente la legge di Dio e prender sopra di sé la croce di Cristo. Così nella Sacra Scrittura divina si dice che Dio comandava di non porre nell’arca ove era la manna nessun’altra cosa se non il libro della Legge e la verga di Mosè (Dt. 31, 26), che significa la croce. Infatti l’anima che non aspiri ad altra cosa se non ad osservare perfettamente la legge del Signore e a portare la croce di Cristo, sarà vera arca, che racchiuderà la vera manna, cioè ...
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  • 6. Libro 1 - Capitolo 6

    17 APR 2022 · CAPITOLO 6 Si tratta dei due principali danni che gli appetiti causano nell’anima, uno privativo e l’altro positivo. 1. Per intendere più chiaramente e ampiamente quanto s’è detto, sarà bene ora soffermarci a dire come questi appetiti causano nell’anima due danni principali: il primo è che la privano dello spirito di Dio, e il secondo è che stancano, tormentano, oscurano, macchiano, infiacchiscono e feriscono l’anima in cui vivono, come dice Geremia nel capitolo secondo: Duo mala fecit populus meus: dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas; che significa: «Lasciarono me, che sono fonte d’acqua viva, e scavarono per proprio conto cisterne rotte, che non possono contenere acqua» (2, 13). Occorre sapere che questi due mali, privativo e positivo, sono causati da qualsiasi atto disordinato dell’appetito. E parlando in primo luogo di quello privativo, è chiaro che, per il fatto stesso che l’anima si affeziona ad una cosa che cade sotto il nome di creatura, quanto più grande è nell’anima quell’appetito, tanto minore capacità essa ha per Dio, in quanto due contrari non possono esser contenuti in uno stesso soggetto, come dicono i filosofi e come abbiamo detto nel quarto capitolo. E affezione di Dio e affezione di creatura sono contrari, e così affezione di creatura e affezione di Dio non sono contenuti in una stessa volontà. Infatti, che ha a che vedere la creatura con il Creatore, il sensuale con lo spirituale, il visibile con l’invisibile, il temporale con l’eterno, il cibo celestiale puramente spirituale ed il cibo del senso puramente sensuale, la nudità di Cristo con l’attaccamento a qualcosa? 2. Pertanto, così come nella generazione naturale non si può introdurre una forma senza prima togliere dal soggetto la precedente forma contraria, la quale, finché c’è, è d’impedimento all’altra per la contrarietà che esiste fra loro, così, finché l’anima s’assoggetta allo spirito sensuale, non vi può entrare lo spirito puramente spirituale. Perciò il nostro Salvatore disse in San Matteo: Non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus; cioè: «Non è cosa conveniente prendere il pane dei figli e darlo ai cani« (15, 26). E in altro luogo dice anche mediante lo stesso evangelista: Nolite sanctum dare canibus; che significa: «Non date ai cani ciò che è santo» (7, 6). In questi passi nostro Signore paragona ai figli di Dio coloro che, negando gli appetiti delle creature, si dispongono a ricevere puramente lo spirito di Dio; ed ai cani coloro che vogliono soddisfare i loro appetiti nelle creature; infatti ai figli è dato mangiare con il proprio Padre alla sua mensa e dal suo piatto, cioè pascersi del suo spirito, ed ai cani spettano le briciole che cadono dalla mensa. 3. Bisogna dunque sapere che tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Pertanto giustamente è chiamato cane colui che va pascendosi delle creature e perciò gli si toglie il pane dei figli; poiché costoro non vogliono sollevarsi dalle briciole delle creature alla mensa dello spirito increato del loro Padre. E perciò giustamente vagano sempre affamati come cani, poiché le briciole servono piuttosto a stimolare l’appetito che a soddisfare la fame. Di costoro dice David: Famem patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint saturati, et murmurabunt; cioè «Essi soffriranno la fame come cani e s’aggireranno nella città e non sentendosi sazi mormoreranno» (Sal. 58, 15-16). La caratteristica di chi ha appetiti è infatti d’esser sempre scontento e stizzoso come chi ha fame. Ma che ha a che vedere la fame causata da tutte le creature con la sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Infatti questa sazietà increata non può entrare nell’anima se prima non si scaccia l’altra fame creata dell’appetito dell’anima; poiché, come abbiamo detto, in uno stesso soggetto non possono esserci due contrari, che in questo caso sono la fame e la sazietà. 4. Da quanto s’è detto si vedrà quanto più Dio faccia nel purificare e purgare un’anima da queste contrarietà che non nel crearla dal nulla. Infatti queste contrarietà di affetti ed appetiti opposti sono più opposti e resistenti a Dio del niente, poiché questo non fa resistenza. E questo basti intorno al primo danno principale che gli appetiti fanno all’anima, cioè il resistere allo spirito di Dio, in quanto già ne abbiamo parlato a lungo. 5. Diciamo ora del secondo effetto che provocano in essa, che è di molti tipi, poiché gli appetiti stancano l’anima e la tormentano e la oscurano e la macchiano e l’infiacchiscono. Di questi cinque aspetti tratteremo partitamente. 6. Quanto al primo, è chiaro che gli appetiti stancano e affaticano l’anima, poiché sono come figlioletti inquieti e di difficile contentatura, che vanno sempre chiedendo questo e quello alla madre senza mai accontentarsi. E come si stanca e si affatica colui che scava per cupidigia d’un tesoro, così si stanca e affatica l’anima per ottenere ciò che i suoi appetiti le chiedono. E se anche infine l’ottenga, si stanca, sempre, perché mai si soddisfa; infatti, in fondo, sono cisterne rotte quelle che scava, che non possono contenere acqua per saziare la sete (Ger. 2, 13). E così come dice Isaia: Lassus adhuc sitit, et anima eius vacua est (29, 8), che significa: il suo appetito è vuoto e l’anima che ha appetiti si stanca e s’affatica; poiché è come un malato febbricitante, che non sta bene finché non se ne va la febbre ed ogni minuto gli aumenta la sete. Infatti, come si dice nel libro di Giobbe: Cum satiatus fuerit, arctabitur aestuabit, et omnis dolor irruent super eum; che significa: Quando avrà soddisfatto il suo appetito resterà più oppresso e gravato; è cresciuto nella sua anima il calore dell’appetito e così cadrà su di lui ogni dolore (20, 22). L’anima si stanca e s’affatica con i suoi appetiti, poiché ne è ferita e agitata e turbata come l’acqua dai venti, e nello stesso modo la sconvolgono senza lasciarla quietare né in un luogo né in una cosa. E di quest’anima dice Isaia: Cor impii quasi mare fervens: «Il cuore dell’empio è come il mare quando ribolle» (57, 20; ed è empio colui che non vince gli appetiti. L’anima che vuole soddisfare i suoi appetiti si stanca ed affatica perché è come colui che, avendo fame, apre la bocca per saziarsi di vento e anziché saziarsi s’inaridisce di più, poiché non è quello il suo cibo. A questo proposito disse Geremia: In desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui; intendendo: «Nell’appetito della sua volontà attrasse a sé il vento della sua afflizione» (2, 24). E subito dopo, per far capire l’aridità che resta in tale anima, dà questo avvertimento: Prohibe pedem tuum a nuditate, et guttur tuum a siti; che significa: «Allontana il tuo piede, cioè il tuo pensiero, dalla nudità e la tua gola dalla sete» (2, 25), vale a dire: distogli la tua volontà dall’appagamento dell’appetito che aumenta l’aridità. E come si stanca e affatica l’innamorato nel giorno della speranza quando vanno a vuoto i suoi slanci, così l’anima si stanca e affatica con tutti i suoi appetiti e i loro appagamenti, poiché tutti le causano un vuoto e una fame maggiori; infatti, come si dice comunemente, l’appetito è come il fuoco, che, gettandovi legna, cresce, e non può che smorzarsi non appena l’abbia consumata. 7. Però la condizione dell’appetito è ancor peggiore, in questo senso, che il fuoco, diminuendo la legna, decresce, mentre l’appetito, sebbene diminuisca la materia, non diminuisce rispetto al suo livello iniziale, anziché decrescere come fa il fuoco quando venga a mancargli l’alimento, e invece si consuma dalla fatica, poiché gli vien accresciuta la fame e diminuito il cibo. E di ciò parla Isaia dicendo: Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur; che significa: «Si volterà verso la destra ed avrà fame; e mangerà verso la sinistra e non si sazierà» (9, 20). Infatti, coloro che non mortificano i propri appetiti, quando si voltano giustamente vedono la sazietà del dolce spirito di coloro che stanno alla destra di Dio, che loro non è concessa; e quando corrono verso la sinistra, cioè a soddisfare il loro appetito in qualche creatura, giustamente non si saziano; poiché, tralasciando ciò che solo può soddisfare, si pascono di ciò che causa loro una fame maggiore. È chiaro dunque che gli appetiti stancano ed affaticano l’anima.
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  • 7. Libro 1 - Capitolo 7 - 8

    17 APR 2022 · CAPITOLO 7 Si tratta del modo in cui gli appetiti tormentano l’anima. Lo si prova anche con paragoni ed autorità scritturali. 1. Il secondo modo di male positivo che gli appetiti causano all’anima è che la tormentano ed affliggono, in modo simile a quello di chi sia torturato con corde, legato da qualche parte, che non si riposa finché non lo si liberi. E di costoro dice David: Funes peccatorum circumplexi sunt me: «Le corde dei miei peccati, che sono i miei appetiti, mi si sono strette intorno» (Sal. 118, 61). E allo stesso modo che si tormenta e affligge chi si corica nudo su spine e punte, così si tormenta e affligge l’anima quando si abbandona sui suoi appetiti; poiché questi come spine feriscono e appenano e bruciano e lasciano dolore. E anche di costoro dice David: Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis; che significa: «Mi girarono intorno come api, pungendomi con i loro pungiglioni e s’accesero contro di me come fuoco con le spine» (Sal. 117, 12); poiché negli appetiti, che sono le spine, cresce il fuoco dell’angustia e del tormento. E come il contadino affligge e tormenta il bue sotto l’aratro nel desiderio della messe che spera, così la concupiscenza affligge l’anima sotto l’appetito per ottenere ciò che desidera. E ciò è evidente in quell’appetito che Dalida aveva di sapere dove avesse tanta forza Sansone, appetito che, dice la sacra Scrittura, tanto l’affaticava e tormentava da farla indebolire fin quasi alla morte: Defecit anima eius, et ad mortem usque lassata est (Giud. 16, 16). 2. L’appetito è un tormento tanto più grande per l’anima quanto più è intenso; dimodoché tanto è il tormento quanto l’appetito, e ha tanti più tormenti quanti più appetiti la possiedono; poiché avviene in tale anima, fin da questa vita, ciò che nell’Apocalisse si dice di Babilonia, con queste parole: Quantum glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum; cioè: «Tanto quanto volle gloriarsi e soddisfare i suoi appetiti, datele tormento e angustia» (18, 7). E come è tormentato e afflitto colui che cade in mano ai suoi nemici, così è tormentata e afflitta l’anima che si lascia trascinare dai suoi appetiti. E di ciò v’è figura nel libro dei Giudici (16, 21), dove si legge che il forte Sansone, che prima era forte e libero e giudice d’Israele, caduto in potere dei suoi nemici, fu privato della forza e accecato e legato a girare una mola, il che lo tormentò e afflisse molto. E così accade all’anima in cui questi nemici, gli appetiti, vivano e vincano: prima l’infiacchiscono ed accecano e, come poi diremo, subito dopo l’affliggono e tormentano legandola alla mola della concupiscenza; e i lacci con cui è legata sono gli stessi appetiti. 3. Perciò, avendo Dio compassione di costoro che con tanto travaglio e a proprie spese vanno soddisfacendo la sete e la fame dell’appetito nelle creature, dice loro con Isaia: Omnes sitientes, venite ad aquas; et qui non habetis argentum, properate, emite et comedite: venite, emite absque argento vinum et lac. Quare appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in saturitate? (55, 1-2); intendendo: Voi tutti che avete sete di appetiti, venite alle acque, e voi tutti che non avete l’argento della propria volontà e degli appetiti, affrettatevi; comperate da me e mangiate; venite e comperate del mio vino e del mio latte, cioè pace e dolcezza spirituale, senza l’argento della propria volontà, senza darmi in cambio nessuna fatica, come invece fate per i vostri appetiti. Perché date l’argento della vostra volontà per ciò che non è pane, cioè non appartiene allo spirito divino, e ponete invece il travaglio dei vostri appetiti in ciò che non può saziarvi? Venite, ascoltatemi, e mangerete il bene che desiderate e la vostra anima si delizierà nell’abbondanza. 4. Questo giungere all’abbondanza è liberarsi da tutti i gusti di creatura, poiché la creatura tormenta e lo spirito di Dio ricrea. E così egli ci chiama dicendoci con San Matteo: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos, et invenietis requiem animabus vestris (11, 28-29); intendendo: Voi tutti che andate tormentati, afflitti e gravati dal peso delle vostre preoccupazioni ed appetiti, liberatevene venendo a me, ed io vi ricreerò e troverete per le vostre anime quel riposo che i vostri appetiti vi tolgono. Così questi sono un carico pesante, poiché di essi dice David: Sicut onus grave gravatae sunt super me (Sal. 37, 5).
    16m 42s
  • 8. Libro 1 - Cap 9-10

    24 APR 2022 · CAPITOLO 9 Si tratta del modo in cui gli appetiti macchiano l’anima. Lo si prova con paragoni e testimonianze della Sacra Scrittura. 1. Il quarto danno che gli appetiti recano all’anima è che la macchiano ed insozzano, secondo quanto insegna l’Ecclesiastico dicendo: Qui tetigerit picem, inquinabitur ab ea; che significa: «Chi tocca la pece se ne insozza» (13, 1); e allora uno tocca la pece quando soddisfa l’appetito della sua volontà in qualche creatura. E qui bisogna osservare che il Saggio paragona le creature alla pece, poiché c’è maggiore differenza tra l’eccellenza dell’anima e tutto il meglio delle creature di quanta non ve ne sia tra un limpido diamante o l’oro fino e la pece. E come l’oro o il diamante, se vi si versasse sopra pece calda, ne resterebbero unti e impiastricciati, per il calore che la riscaldò e liquefece, così l’anima che è calda di appetito verso qualche creatura, dal calore del suo appetito resta immonda e macchiata. E c’è più grande differenza tra l’anima e le altre creature corporee che tra un liquido limpidissimo e un fango sozzissimo. Perciò, come si insozzerebbe un simile liquido se lo si mescolasse con il fango, allo stesso modo si insozza l’anima che s’attacca alla creatura, poiché così diviene simile a tale creatura. E come la fuliggine deturperebbe un volto molto bello e perfetto, allo stesso modo gli appetiti disordinati che dominano l’anima l’imbruttiscono ed insozzano, mentre essa in sé è una bellissima e perfetta immagine di Dio. 2. Perciò Geremia, piangendo la rovina e bruttezza che queste disordinate affezioni causano nell’anima, ne narra prima la bellezza e poi la bruttezza, dicendo: Candidiores sunt Nazaraei eius nive, nitidiores lacte, rubicundiores ebore antiquo, saphiro pulchriores. Denigrata est super carbones facies eorum, et non sunt cogniti in plateis; che significa: «I suoi capelli, cioè dell’anima, sono più candidi della neve, più risplendenti del latte e più vermigli dell’avorio antico e più belli dello zaffiro. La loro faccia si è annerita più del carbone e non sono più conosciuti nelle piazze» (Lam. 4, 7-8). Per i capelli qui intendiamo gli affetti e pensieri dell’anima, che, se ordinati a ciò che Dio comanda, cioè a Dio stesso, sono più bianchi della neve e più bianchi del latte e più rosseggianti dell’avorio e belli più dello zaffiro. Per queste quattro qualità si intende ogni tipo di bellezza ed eccellenza della creatura corporea, a cui sono superiori l’anima e le sue operazioni, rappresentate dai nazareni o capelli, che, se disordinati o posti come Dio non volle, cioè se usati per le creature, dice Geremia, rendono la faccia più nera dei carboni. 3. Questo e ancora più grande è il male che fanno alla bellezza dell’anima gli appetiti disordinati per le cose di questo mondo. Tanto che se volessimo di proposito parlare del brutto e sozzo aspetto che gli appetiti possono far assumere all’anima, non troveremmo cosa alla quale potremmo paragonarla, per quanto fosse piena di ragnatele e schifezze, né bruttezza di corpo morto, né qualsiasi altra cosa immonda e sozza quanto si può vedere e immaginare in questa vita. Infatti, sebbene sia vero che l’anima disordinata resta perfetta come Dio la creò, quanto alla sua natura, invece quanto al suo essere razionale è brutta, abominevole, sozza, oscura e con tutti i mali che qui andiamo descrivendo, e più ancora. Infatti un solo appetito disordinato, come poi diremo, sebbene non sia materia di peccato mortale, è sufficiente a far diventare un’anima tanto schiava, sozza e brutta che in nessun modo può convenire con Dio nell’unione, finché l’appetito non si purifichi. Quale sarà la bruttezza di quella che sia affatto disordinata e soggetta ai propri appetiti nelle sue passioni, e quanto sarà lontana da Dio e dalla sua purezza? 4. Non si può spiegare con parole e nemmeno capire con l’intelletto la varietà di impurità che la varietà degli appetiti causa all’anima. Se infatti si potesse dire e far capire, sarebbe stupefacente ed anche molto miserevole vedere come ogni appetito, secondo la sua maggiore o minore quantità e qualità, lascia nell’anima il suo segno e deposito di impurità e bruttezza, e come un solo disordine della ragione possa contenere in sé innumerevoli specie di maggiori o minori sozzure, ciascuna diversa dall’altra. Poiché, come l’anima del giusto, in una sola perfezione, cioè la rettitudine dell’anima, contiene innumerevoli ricchissimi doni e molte bellissime virtù — ciascuna di diversa specie e bella a seconda della moltitudine e differenza degli affetti d’amore che essa ha avuto verso Dio —, così l’anima disordinata, secondo la verità degli appetiti che ha verso le creature, contiene una miserevole varietà di impurità e bassezze, delle quali la colorano quegli appetiti. 5. Questa varietà di appetiti è ben raffigurata in Ezechiele (8, 10-16), dove si scrive che Dio mostrò a questo profeta all’interno del tempio, dipinti all’intorno sulle pareti, tutti gli schifosi esseri che strisciano sulla terra ed ogni genere di abominazione di animali immondi. E allora Dio disse ad Ezechiele: «Figlio dell’uomo, davvero non hai visto le abominazioni che costoro compiono, ciascuno nel segreto della sua stanza?»; e avendo Dio comandato al profeta di inoltrarsi a vedere più grandi abominazioni, dice d’aver veduto donne sedute a piangere il dio degli amori Adone. E Dio gli comandò di inoltrarsi a vedere abominazioni ancor più grandi; e dice d’aver visto venticinque vecchi che tenevano le spalle rivolte contro il tempio. 6. I diversi animali schifosi e immondi, ch’erano dipinti nel primo recesso del tempio, sono i pensieri e le concezioni che l’intelletto ha delle cose basse della terra e di tutte le creature, le quali si dipingono tali quali sono nel tempio dell’anima, quando questa ne ingombra l’intelletto, che è la prima stanza dell’anima. Le donne che erano più all’interno, nella seconda stanza, a piangere il dio Adone, sono gli appetiti che si trovano nella seconda potenza dell’anima, cioè la volontà. E questi stanno come piangendo in quanto bramano ciò a cui la volontà è affezionata, cioè gli schifosi animaletti già dipinti nell’intelletto. E gli uomini che stavano nella terza stanza sono le immagini e rappresentazioni delle creature che la terza parte dell’anima, cioè la memoria, custodisce e volge dento di sé. E di esse si dice che stanno con le spalle rivolte contro il tempio, poiché, quando l’anima abbraccia con queste sue tre potenze qualcosa di terreno in modo intero e perfetto, si può dire che essa tiene le spalle contro il tempio di Dio, cioè la retta ragione dell’anima, la quale non ammette in sé nulla che riguardi creature. 7. Per intendere qualcosa di questo brutto disordine dell’anima nei suoi appetiti basti per ora quanto s’è detto. Infatti, se dovessimo trattare in particolare della bruttura minore che viene causata nell’anima dalle imperfezioni e dalle loro varietà; e di quella provocata dai peccati veniali, che è già più grande di quella provocata dalle imperfezioni, e dalla loro grande varietà; e anche di quella causata dagli appetiti del peccato mortale, che è la totale bruttezza dell’anima, nonché delle sue molte varietà; per la varietà e moltitudine di questi tre generi di cose, mai si finirebbe, né basterebbe intelletto angelico per poter intenderlo. Ciò che dico e risponde al mio intento è dunque che qualsiasi appetito, anche della minima imperfezione, macchia ed insozza l’anima.
    14m 45s
  • 9. Libro 1 - Cap. 11

    2 MAY 2022 · CAPITOLO 11 Si prova che per giungere alla divina unione è necessario privare l’anima di tutti gli appetiti, per minimi che siano.
    13m 56s
  • 10. Libro 1 - Cap 12

    15 MAY 2022 · Libro I Cap. 12 Si tratta del modo in cui si risponde a un’altra domanda, spiegando quali siano gli appetiti che bastano a causare nell’anima i danni di cui s’è detto.
    8m 4s
di padre fra San Giovanni della Croce, carmelitano scalzo
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