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Gramsci - Lettera numero 17 - Milano 12 febbraio 1927

Gramsci - Lettera numero 17 - Milano 12 febbraio 1927
Apr 16, 2021 · 6m 20s

Carissime, vi scrivo insieme, per utilizzare meglio le poche lettere che mi è concesso scrivere. Sono partito da Ustica il 20 mattino, all’improvviso: ho fatto appena a tempo a dettare...

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Carissime,
vi scrivo insieme, per utilizzare meglio le poche lettere che mi è concesso scrivere. Sono partito da Ustica il 20 mattino, all’improvviso: ho fatto appena a tempo a dettare una breve lettera e a far spedire un telegramma per avvertirvi. Credevo di passare in transito a Roma; invece a quanto
pare per errata interpretazione del telegramma che disponeva per il mio arresto, fui tradotto a Milano per traduzione ordinaria e non straordinaria: cosí rimasi in viaggio 19 giorni. A Isernia mi riuscì di spedire un telegramma che vi avvertiva del cambiato itinerario. Questo viaggio è stato per
me triplice o quadruplice collaudo, sia dal punto di vista morale che, e specialmente, da quello fisico. Non voglio descriverlo minutamente ancora, per non spaventarvi e non darvi l’impressione che io mi trovi nelle condizioni di uno straccio. In questi 19 giorni ho «abitato» nelle seguenti
carceri: Palermo, Napoli, Caianello, Isernia, Sulmona, Castellamare Adriatico, Ancona, Bologna; il 7 a notte sono giunto a Milano. A Caianello e a Castellamare non ci sono carceri; ho «dormito» nelle camere di sicurezza delle Caserme dei Carabinieri; sono state le due piú brutte notti che ho
trascorso, forse in tutta la mia vita. A Castellamare ho preso un formidabile raffreddore, che ora mi è quasi passato.
Nelle traversate Ustica-Palermo e Palermo-Napoli il mare era pessimo; tuttavia non ho sofferto. La traversata Palermo-Napoli merita di essere descritta: lo farò in altra lettera, quando avrò ripensato a tutti i particolari e avrò rinfrescato la memoria.
In generale il viaggio è stato per me come una lunghissima cinematografia: ho conosciuto e visto un’infinità di tipi, dai piú volgari e repugnanti ai piú curiosi e ricchi di caratteristiche interessanti.
Ho capito come sia difficile comprendere dai segni esteriori la vera natura degli uomini; per esempio, ad Ancona, un vecchietto bonario e dalla faccia di onesto popolano di provincia, mi domandò di cedergli la mia minestra che avevo deciso di non mangiare; lo feci volentieri, colpito
dalla serenità dei suoi occhi e dalla modestia spigliata del suo fare; fui avvertito subito che era un repugnante mascalzone: aveva violentato la figlia.
Vi voglio dare una impressione d’insieme della traduzione. Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e si decompone continuamente, lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a destra e a sinistra delle
formazioni e incorporandosi le estrazioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere, che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8 giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzurra e la miseria delle generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe
ore di ferri, con la barba lunga, coi capelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti per l’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta per terra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non aver contatti col sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri
asciugamani, coprendosi con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora piú sporchi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora piú lividi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fatica di trasportare, cosí agghindati, i propri bagagli: ma, pazienza, ora tutto è
passato e mi sono già riposato.
Sto qui, in una cella buona, riscaldata dal sole, coperto da un maglione che ho acquistato subito e finalmente ho cacciato il freddo dalle mie vecchie ossa.
Vi descriverò in altre lettere alcuni dei miei compagni di catena e di viaggio: ne ho una serie, abbastanza interessante.
Mi ha colpito specialmente un ergastolano (cioè condannato a vita), incontrato a Napoli, durante l’«aria», ho saputo solo il suo nome, Arturo, e questi particolari: che ha 46 anni, che ha già compiuto 22 anni di pena, dei quali 10 di segregazione (isolato), che è calzolaio tagliatore.
È un uomo bello, slanciato, dai tratti fini ed eleganti; parla con una precisione, una chiarezza, una sicurezza da sbalordire. Non ha una grande cultura, sebbene citi spesso Nietzsche: diceva Dies iràë, sdoppiando l’a-e. Lo vidi a Napoli, sereno, sorridente, tranquillo; aveva come una tinta
pergamenacea sulle tempie e nelle orecchie, la pelle ingiallita, cioè, e come conciata. Partí da Napoli due giorni prima di me. Lo rividi ad Ancona, all’arrivo in stazione, sotto la pioggia: gli avevano fatto fare la linea Campobasso-Foggia, credo, e non quella Caianello-Castellamare, perché,
ergastolano, avrebbe, in questi transiti, tentato la fuga, arrischiando sia pure un colpo di moschetto da parte dei carabinieri. Mi salutò, avendomi subito riconosciuto. Lo rividi all’ufficio matricola del carcere di Ancona: gli avevano lasciato i ferri, perché doveva andare in cella, essendo giunto a
destinazione, e doveva attraversare dei cortili, sia pure interni. Era cambiato completamente da Napoli: davvero che mi richiamò Farinata: la faccia dura, angolosa, gli occhi pungenti e freddi, il petto in fuori, tutto il corpo teso come una molla pronta allo scatto: mi strinse la mano due o tre
volte e sparí, inghiottito dalla casa di pena.
Basta: vedete, ho chiacchierato come una donnicciola. Sappiate per ora che sto bene, che non ho bisogno di nulla, che sono tranquillo e che attendo notizie vostre e dei bambini. Delio si ricorda di me qualche volta? Dovete mandarmi la fotografia di Giuliano.
Abbraccio tutti teneramente.
Antonio
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Author Radio Ortica
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