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Maria Cristina Cerrato "All'ombra di Caino"

Maria Cristina Cerrato "All'ombra di Caino"
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Dec 24, 2017 · 19m 51s

Maria Cristina Cerrato Pino Nazio "All'ombra di Caino" Storie di donne e di violenza Sovera Edizioni Dalla parte delle donne di Maria Cristina Cerrato "Quel lavoro mi piaceva abbastanza. Anni...

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Maria Cristina Cerrato
Pino Nazio
"All'ombra di Caino"
Storie di donne e di violenza
Sovera Edizioni


Dalla parte delle donne
di Maria Cristina Cerrato
"Quel lavoro mi piaceva abbastanza. Anni prima avevo iniziato il tirocinio presso uno studio legale che si occupava di diritto penale carcerario e mi ero iscritta nelle liste delle difese d’ufficio. Tra convalide di arresto e interrogatori venivo in contatto con imputati accusati di gravi reati nei cui confronti erano state applicate misure cautelari detentive. Un giorno d’estate, caldo più del solito, ero stata a Regina Coeli per il colloquio con un detenuto accusato di omicidio. “La classica fortuna della principiante”, aveva detto il mio collega di studio, riferendosi a quella nomina arrivata dal carcere. La corte d’Assise, dove si giudicano gli omicidi, era una bella vetrina per i giovani avvocati, occupati per lo più in reati minori come furti e piccolo spaccio di sostanze stupefacenti. Il detenuto che mi aveva nominata era un falegname rumeno accusato di un omicidio efferato, secondo l’ipotesi accusatoria il giovane, per motivi di denaro, aveva ucciso un italiano di sessanta anni, ex steward dell’Alitalia, che gli aveva commissionato alcuni lavori di falegnameria, colpendolo con ventisette colpi alla testa. Per me mantenere un atteggiamento freddo e controllato non era stato facile. Avevamo la stessa età, era la prima cosa cui avevo pensato trovandomelo davanti nella stanzetta dei colloqui. L’uomo proclamava la sua innocenza a gran voce, diceva che si trattava di un complotto ordito ai suoi danni per motivi inspiegabili. In realtà una sorta di inquietudine mi assaliva a ogni colloquio in carcere, qualcosa nel racconto dell’imputato non mi aveva mai convinta. Più volte avevo avuto la tentazione di spingerlo a confessare il delitto, senza mai riuscire a trovare la forza per farlo. Il processo, celebrato dinanzi alla corte di assise di Roma, si era concluso con la condanna del falegname a ventitré anni di reclusione. L’ultima immagine che ho conservato del mio assistito è quella di spalle, mentre le guardie carcerarie lo conducevano fuori dall’aula. Le sue impronte sul sangue non avevano lasciato dubbi sulla sua responsabilità. Aveva detto di essere innocente, e io gli avevo creduto. O meglio, avevo finto di credergli, come finsi di credere agli imputati che mi ritrovai ad assistere negli anni successivi.
Quella mattina Palazzo di giustizia era affollato, giudici, cancellieri, agenti di polizia penitenziaria, avvocati. Le udienze delle 9 stavano per cominciare e nessuno era ancora al suo posto, eccetto qualche testimone. Non avevo udienze, dovevo depositare una lista di testi e poi visionare un fascicolo alla cancelleria cen- trale per un processo il giorno dopo. Mentre attraversavo il cortiletto esterno mi si fece incontro una donna trafelata per chiedermi dove era l’aula sei dell’edificio A. Era una donna minuta e curata, sui quaranta anni e aveva indosso una chiassosa giacca a fiori. Dovevo andare anche io nello stesso edificio così pensai di accompagnarla. La donna si presentò, si chiamava Lucia, mi spiegò di essere lì per una denuncia che aveva fatto a suo marito un anno e mezzo prima. Mi porse un foglio che teneva stretto in mano, era la notifica per l’udienza di quel giorno. La guardai negli occhi, lessi la richiesta di rinvio a giudizio dove erano scritti i capi di imputazione a carico dell’ex marito. Nei dieci anni di matrimonio l’uomo, accusato di maltrattamenti e lesioni, le aveva fratturato il naso più volte e le aveva procurato lesioni al timpano con uno schiaffo. Lucia disse di essere terrorizzata all’idea di trovarselo davanti, mi chiese di aspettare insieme a lei. Quando venne il suo turno l’aula era quasi deserta e Lucia tirò un sospiro di sollievo perché si vergognava di parlare davanti ad estranei. Si trattava di una udienza preliminare, quelle che servono per capire se ci sono le condizioni per fare un processo. L’imputato non c’era e neppure il suo difensore che aveva rinunciato al mandato; per un problema di notifica il procedimento venne rinviato. Ci allontanammo dall’aula insieme e Lucia mi ringraziò per il tempo che le avevo dedicato perché sapeva che gli avvocati vanno sempre di fretta. Disse che non guadagnava molto con il suo lavoro a ore, timidamente mi chiese se potevo diventare il suo avvocato ma che non poteva pagare molto.
Le risposi di sì, senza pensarci su: mi avrebbe fatto piacere aiutarla al processo. Le dissi di non preoccuparsi del compenso e che poteva chiedere il gratuito patrocinio perché le vittime del reato di maltrattamenti possono usufruire dell’assistenza legale gratuita da parte dello Stato. Dopo averla salutata pensai che certe cose non accadono a caso e mi sentii bene all’idea di poter lavorare per lei. Prima di allora non avevo mai pensato all’opportunità di dedicarmi all’assistenza legale delle vittime nel processo penale, attività non meno impegnativa e necessaria di quella prestata in favore degli autori del reato. Scorsi le pagine del codice di procedura penale e mi resi conto di quanto poteva essere rilevante. La persona offesa attraverso il difensore ha il vantaggio di poter essere informata ed aggiornata sullo stato del procedimento nonché di sollecitare, attraverso memorie difensive, eventuali adempimenti investigativi e indicare persone utili da sentire in merito ai fatti denunciati. Assistere la vittima nel caso questa venga sentita con l’incidente probatorio durante le indagini e, in caso di pericolo, chiedere che venga applicata una misura cautelare per tutelarla dell’autore del reato. L’ingresso della parte lesa nel processo penale avviene con l’atto di costituzione di parte civile che trasforma la persona offesa in vera e propria parte del procedimento.
Ogni reato produce danno e sofferenza, le vittime di violenza domestica sono però particolarmente vulnerabili perché l’autore del reato è il proprio marito o compagno o un altro membro del gruppo familiare. A volte la violenza insorge sin dall’inizio della relazione, a volte in concomitanza con la nascita di un figlio, a volte dopo anni di rapporto. La donna non sempre ha la possibilità di cercare aiuto all’esterno e può resistere ai soprusi anche per molti anni sperando che l’uomo cambi, minimizzando le violenze che subisce. Proprio la decisione di separarsi o allontanarsi da casa, per salvare se stessa e i figli, rappresenta il momento di maggiore pericolo per la donna..."



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