Jean Toschi
"La porta d'ingresso dell'Islam"
Bosnia Erzegovina un Paese ingovernabile
Zambon Editore
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Il 14 dicembre 2015 compiva ventâanni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla
presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. Lâaccordo metteva cosĂŹ
fi ne a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. Lâamministrazione
Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione
composta di tre etnie divise
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in due entitĂ : la Federazione Croata-musulmana e la
Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo.
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato dâallora, congelata dalla costituzione
imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono
alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute
nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti
giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche.
Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in
queste pagine esce un' imbarazzante realtĂ .
Unâimportante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel
1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata
aperta allâIslam la porta dâEuropa, un paese a tre ore e mezzo dâautostrada da Trieste.
Emoziona ripercorrere la strada lungo la quale, venti anni prima, si viaggiava nel mezzo della guerra. Il ricordo delle case in rovina, le strade dissestate dai crateri prodotti dallo scoppio delle granate, il fondo stradale torturato dal passaggio dei mezzi pesanti, le piazze ricoperte da strati di bossoli di pallottole, i ponti distrutti, sbrecciati, seminati di gusci di granate, il buio, il freddo, la nebbia, tutto questo è sparito.
Il confine con la Bosnia-Erzegovina non è piĂš un insieme di container lungo una strada stretta, affollata di camion, dove lâaria â irrespirabile per i gas di scarico â rendeva faticosa lâattesa. Verso Bijelijna la strada è ben asfaltata. Il ponte verso la Croazia, fatto saltare nel maggio 1992 mentre gente andava al lavoro e bambini a scuola, è tornato a congiungere le rive della Sava e le frontiere. Al posto di ectoplasma di abitazioni, depredate di tutto fino agli infissi, ora case gialle, color cobalto, porticati e torrette belvedere.
Solo a Derventa, distrutta, si vedono ancora tracce della guerra, ma tutto è ordinato, anche gli edifici devastati. Man mano che scorrono i chilometri, i vecchi punti di riferimento si trasformano in piacevoli immagini. A Banja Luka unâ autostrada porta al confine croato e allâaltra autostrada che congiunge Trieste a Belgrado, attraversando Slovenia e Croazia.
Colpisce lâordine lungo il percorso attraverso le strade, i villaggi, che dalla Repubblica Srpska portano al territorio della Federazione croato-musulmana e di nuovo nella Srpska. Il mio entusiasmo è tramontato quando ho iniziato a parlare con la gente. La normalità è apparente. Lâunificazione del Paese permette di passare un territorio allâaltro senza barriere, ma ci sono abissi fra gli abitanti. Soprattutto non vivono insieme, ognuno nel suo quartiere con il proprio gruppo etnico, particolarmente in zone miste come il BrÄko District. In tutto il paese il passato incombe e le ferite causate dalla guerra civile sono rimaste aperte.
Finora non è stata promossa alcuna politica pacificatrice. La ComunitĂ internazionale, gli Stati Uniti in particolare â favorendo unâentitĂ (i Musulmani o Bosgnacchi) rispetto a unâaltra (i Croati), tenendo sotto la spada di Damocle dei presunti crimini commessi la terza (i Serbi) â in 20 anni nulla ha fatto per ricostruire un tessuto sociale che permetta la vita in comune. Giocando la carta delle colpe e addossandole ai Serbi per ottenere da loro lâacquiescenza a una politica disegnata per favorire principalmente i Musulmani, la ComunitĂ internazionale impone la centralizzazione, ma per ottenerla sarebbe stata necessaria una politica non punitiva. La riunificazione, auspicata dai poteri occidentali, sembra lontana.
Lâ11 luglio 2015, al Memoriale, il grande cimitero di PotoÄari, si sono celebrati i ventâanni di quello che Musulmani e potenze occidentali chiamano il genocidio di Srebrenica. Sul Memoriale è inciso il numero 8372, ma fino al 2015 circa 6300 nomisono stati seppelliti nel cimitero. Lâavvenimento ĂŠ stato preceduto da incalzanti servizi e dichiarazioni sui media e la tensione è montata a tal punto che la presenza di cortesia alla cerimonia del Premier della Serbia, Aleksandar VuÄiÄ, è stata interrotta da un rabbioso tiro di oggetti.
Gli scettici su questo genocidio, e fra questi anche diversi Musulmani bosniaci, ritengono che questa shoah musulmana, oltre ad aver ottenuto allâepoca lâintervento degli Usa e della Nato sui Serbi, ha compattato i Musulmani come nazione, prima inesistente. Oggi il grosso della popolazione musulmana è guidata a riconoscersi in questo enorme Memoriale che, grazie allâimponente risalto mediatico, vuole rappresentare il sacrificio dei combattenti Musulmani contro i Cristiani ortodossi.
I scettici si domandano a chi giovi un genocidio di Musulmani. Relativizzando la strage di Armeni, compiuta un secolo fa dai Giovani Turchi, giova al governo di Ankara. Giova ai Croati, che hanno trasformato il campo di sterminio di Jasenovac (1941-1944) in giardino, infatti il crimine dei Serbi permette di eclissare il loro, ben maggiore, ma piĂš remoto: settecentomila corpi sono ancora nelle fosse comuni del campo 8 a Donja Gradina (Serbi, Ebrei e Rom). Anche questo campo di morte è stato condannato allâabbandono e allâoblio dalla ComunitĂ internazionale. Infine Srebrenica giova alla Germania, che disciplinatamente si è assunta la propria colpa per i campi di sterminio, non spiace che la propria efferatezza sia accantonata grazie ai Serbi, i nuovi spietati secondo i media. E a questo punto anche i Musulmani hanno un genocidio da contrapporre alla Shoah ebraica.
Jean Toschi Marazzani Visconti è nata a Milano. Assistente alla regia di Damiano Damiani, Pietro Germi ed Eriprando Visconti, ha fondato nel 1980 unâagenzia di relazioni pubbliche. Dal 1992 attraversa i fronti di guerra â dalla Croazia a Sarajevo, dalla Repubblica Serba di Krajina al Montenegro, fino al Kosovo â e conosce i protagonisti della politica balcanica. Assiste poi ai bombardamenti della Nato sulla Serbia aprile-giugno 1999. Ne scrive per âil manifestoâ, âLimesâ, âAvvenimentiâ. Eâ autrice de âLe temps du rĂŠveilâ (Lââge dâhomme, Lausanne, 1993), âViaggio nella follia di una guerraâ (Europublic, Beograd, 1994), âIl corridoio. Viaggio nella Jugoslavia in guerraâ, introd. di Aleksandr Zinovâev (La CittĂ del Sole 2006). Per Zambon Editore ha curato âUomini e non uomini. La guerra in Bosnia-Erzegovina nella testimonianza di un ufficiale jugoslavoâ di Goran JelisiÄ (2013).
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