4 - Romanza d'acqua: Alvise e Matilda
Apr 24, 2024 ·
17m 54s
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Ep. 4: Romanza d'acqua: Alvise e Matilda (Testo e voce di Eleonora Andrighetto) Come per tanti matrimoni di paese, non si poteva parlare di una prima volta nell’amore di Alvise...
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Ep. 4: Romanza d'acqua: Alvise e Matilda
(Testo e voce di Eleonora Andrighetto)
Come per tanti matrimoni di paese, non si poteva parlare di una prima volta nell’amore di Alvise e Matilde. Se il loro amore fosse stato una linea tracciata su di una mappa, o un sentiero, non se ne sarebbe potuto isolare un punto preciso, una pietra miliare. Nessun terremoto: nell’acqua non scoppiano i colpi di fulmine, né le passioni sgorgano come torrenti. Al più crescono piano, come maree al chiaro di luna.Nel cuore di Alvise, l’ovale liscio, bruno e regolare del viso di Matilde era quotidiano e rassicurante come lo scricchiolio delle foglie secche sotto i piedi quando andava a fare legna nel bosco. Agli occhi di Matilde, la schiena di Alvise, tesa e punteggiata di nei, era sicura come la polverosa strada di ciottoli che da Costa portava a Pesche, quella che percorreva rincasando ogni giorno dopo aver fatto lezione ai bimbi della scuola di Osacca.
Alvise e Matilde erano l’uno per l’altra terre conosciute, acquaria di casa. Da bambini avevano navigato gli stessi prati, cacciato le stesse lucertole, scalato le stesse rocce. Le loro vite nel borgo erano sbocciate all’unisono, crescendo in direzioni differenti come giovani rami di uno stesso albero, e a distanza di pochi passi uno dall’altra, ciascuno aveva trovato un piccolo mondo tutto suo in cui mettere radici e cominciare a sbocciare. Avevano frequentato la scuola del paese condividendo per poco tempo la classe e il Maestro: Alvise, più grande di Matilde di quattro anni, aveva lottato a lungo con suo padre per poter finire la terza media invece di accompagnarlo ogni giorno con l’ascia nel bosco. Subito quello aveva rifiutato, ma il ragazzetto era ostinato, duro anche più di suo padre - come riconobbe quello anni dopo, non senza con un certo orgoglio - e così, a furia di litigare, l’aveva avuta vinta. Dopo la scuola, comunque, Alvise aveva seguito le orme paterne nel fitto del bosco, e se n’era andato a spaccare tronchi come era stato deciso il giorno della sua nascita. In verità, lui non aveva mai voluto essere qualcosa di diverso da un taglialegna, non si era intestardito sul prolungare gli studi per questo motivo: amava i boschi di Osacca e sapeva fin da bambino che lì sarebbe stato il suo futuro, ma quando la scuola gliene aveva dato l’occasione, aveva scoperto che poteva imparare dai libri cose diverse da quelle che poteva imparare dal bosco, e spinto da una fervida curiosità aveva cercato di prolungare quel piacere il più possibile. Compiuti tredici anni, aveva infine accolto il proprio destino e si era avviato con cuore sereno lungo il corridoio verde che s’inerpicava sui colli, alle spalle del padre. Tra le ombre maculate delle fronde, però, Alvise aveva portato con sé anche l’amore per i libri, scoperti nell’aula azzurra della scuola oltre la via per Costa. Nelle poche ore libere che aveva la domenica ne leggeva lentamente uno alla volta, che si faceva prestare dalla vecchissima maestra Ausilio, che gli piaceva di più dell’attuale Maestro. Alvise era contento perché aveva sempre qualcosa di nuovo da leggere, e Ausilio, che incoraggiava il suo lato sognatore con casuali versi di poesia e gualcite copie di romanzi ottocenteschi, era contenta perchè prima o poi avrebbe ricevuto una visita. Così, alla domenica, il giovane boscaiolo per qualche ora tornava scolaro, fuggiva verso la brughiera alta con il suo libro e scompariva tra le pagine fino al calare del sole. Non capiva sempre tutto di ciò che leggeva, ma rimanendo sdraiato all’ombra di un noce al limitare del prato, poteva partire a caccia di mostri marini, interrogare omicidi, o scoprire che cosa si prova quando ci s’innamora di una giovane donna che pattina nella neve di San Pietroburgo. Gli piaceva starsene lì, perché alzando gli occhi dalla pagina aveva l’impressione di poter sfiorare in un unico sguardo le colline oltre la strada per Pesche, il sentiero che partiva dal fondo di Costa, e gli striati tappeti erbosi che i contadini allacciavano in stretti covoni.
Era in quell’angolo di quiete, tra l’erba alta e il giallo del tarassaco, che Alvise incontrava più spesso Matilde, dapprima dopo l’orario di scuola e poi alla domenica, negli anni a seguire. Non si davano mai un appuntamento, ma si incontravano sempre per favore del caso o forse per una segreta consuetudine: abitanti di uno stesso paesaggio, lo condividevano ignorandosi, vigili come animali.
Preceduta nella mente di Alvise dal fruscìo degli zoccoli che pestavano leggeri sulla sterpaglia, Matilde era un soffio di vento, prima ancora che un corpo. Settimana dopo settimana lui la spiava passeggiare assorta per la brughiera: con un lungo bastone decorato da una copia di campanelli e la sacca di cotone che usava come cartella per la scuola, la ragazza andava in cerca di insetti, rocce e campioni di erbe e fiori. Matilde collezionava i primi in delle grezze ma ordinatissime teche che i genitori le avevano fatto disporre nel fienile di casa, e conservava le piante essiccate tra le pagine di in uno spesso e fragrante erbario. Questa silenziosa passione per la raccolta era sbocciata in Matilde quando era ancora bambina e accompagnava spesso sua madre a far brucare le capre in alta collina. Annoiata dal ricamo che quella portava con sé per far passare le ore immobili del pascolo, Matilde aveva iniziato a esplorare il prato e a scovarne i piccoli tesori: l’indaco delle ali di una farfalla, gli anelli di una pietra screziata, le corolle vaporose dei ciuffi di velo di sposa.A scuola aveva scoperto le scienze naturali e la biologia, che le parevano le uniche materie, assieme alla storia, capaci di accendere di un grigio più brillante gli occhi distanti del loro schivo Maestro. Le pareva che quello rispondesse più volentieri alle sue domande, se riguardavano un tipo di radice, o le proprietà di una certa erba medica. Al di là di compiacere il Maestro, com’era suo desiderio da brava scolara, Matilde amava raccogliere e classificare la natura attorno a sé soprattutto perché le dava un piacere rassicurante. Nel ridurre a fenomeni minimi il suo paesaggio, nel circoscriverlo e isolarlo tra le pagine dell’erbario e nelle teche, Matilde aveva l’impressione di essere più padrona del suo mondo, di imparare a conoscerlo e di poter dischiudere, almeno in parte, il mistero della sua la lingua ronzante e profumata. Crescendo, aveva sognato di svelare questa lingua a qualcuno, ed era in quel sogno che aveva incontrato i suoi scolari, i futuri bimbi di Osacca a cui avrebbe tramandato i segreti del bosco, della brughiera, del cielo stellato. Era una fantasia romantica, infantile, ma quell’immagine attraversò illesa i tumulti dell’adolescenza di Matilde e diede anzi una direzione alla sua vita fino alla prima età adulta, quando ormai si avviava al praticantato per diventare un giorno maestra. Alla strada che percorreva quotidianamente dalla sua casa di Pesche alla scuola, Matilde non smise mai di affiancare i sentieri che la portavano attraverso il bosco e la brughiera alta: li percorreva in cerca di nuovi fiori, di quei silenzi che aveva condiviso per anni con Alvise e che entrambi sapevano ormai mutati, da un’attesa imbarazzata a una delicata complicità.
I primi tempi si baciavano di nascosto anche quando erano immersi nel silenzio dei prati, come se una voce di vento potesse tradire il loro segreto soffiandolo fino a valle. Nonostante le loro premure, si scontrarono presto con quello che è sia il pregio che il difetto del borgo di Osacca, e cioè che esso mormora e sussurra di continuo.
I primi occhi attenti iniziarono a confidare alle tante orecchie curiose del paese che avevano visto la Matilde tornare di nuovo dal bosco con l’Alvise, o che l’Alvise da un po’ di tempo sembrava più allegro del solito; che, chissà perchè, la Matilde era proprio distratta, e che Vito il pastore li aveva visti tenersi per mano in brughiera. Per fortuna dei due innamorati, l’arrivo delle Funghe spostò drasticamente l’attenzione del borgo su di sé, e il crescente rincorrersi ed incontrarsi dei nomi di Matilde e di Alvise nei discorsi dei paesani passò sempre più inosservato, accompagnando i due innamorati all’altare senza particolare clamore. Era chiaro a tutti che i due facevano coppia fissa, e con la stessa omertosa educazione con cui si alludeva senza parlarne alla sparizione del Maestro di pochi anni prima, si tacque pubblicamente del loro amore fino all’annuncio delle nozze. Matilde e Alvise si sposarono modestamente: le famiglie e pochi amici li accolsero gettando petali di amarena alla loro uscita dalla chiesa sul Promontorio, e li seguirono poi per un pranzo offerto dai padri all’Osteria Alba Spina di Pesche. Dopo la festa, gli sposi si erano avviati verso la nuova casa che era stata costruita per loro a Costa, attraversando il borgo di Osacca e salutando con la mano: si erano lasciati alle spalle l’osteria, i lavatoi, le case di Pesche e la chiesa. Le congratulazioni dei paesani li avevano seguiti fino alla soglia di casa, e Alvise e Matilde, stanchi di tanto sorridere, erano stati felici di avere finalmente una porta da chiudersi alle spalle per essere soli. Entrati in casa si erano tolti le scarpe, e nella penombra del tramonto autunnale tinto dalla luce screziata delle Funghe, che a quell’ora fluttuavano verso il pelo dell’acqua, li aveva accolti la strana e placida sensazione di trovarsi immersi in un attimo di presente infinito, che avevano costruito e atteso per una vita, perchè durasse per tutta la vita.
Podcast ideato, scritto e registrato nell'ambito di Oltrepasso 2023, residenza artistica nel villaggio di Osacca (PR).
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(Testo e voce di Eleonora Andrighetto)
Come per tanti matrimoni di paese, non si poteva parlare di una prima volta nell’amore di Alvise e Matilde. Se il loro amore fosse stato una linea tracciata su di una mappa, o un sentiero, non se ne sarebbe potuto isolare un punto preciso, una pietra miliare. Nessun terremoto: nell’acqua non scoppiano i colpi di fulmine, né le passioni sgorgano come torrenti. Al più crescono piano, come maree al chiaro di luna.Nel cuore di Alvise, l’ovale liscio, bruno e regolare del viso di Matilde era quotidiano e rassicurante come lo scricchiolio delle foglie secche sotto i piedi quando andava a fare legna nel bosco. Agli occhi di Matilde, la schiena di Alvise, tesa e punteggiata di nei, era sicura come la polverosa strada di ciottoli che da Costa portava a Pesche, quella che percorreva rincasando ogni giorno dopo aver fatto lezione ai bimbi della scuola di Osacca.
Alvise e Matilde erano l’uno per l’altra terre conosciute, acquaria di casa. Da bambini avevano navigato gli stessi prati, cacciato le stesse lucertole, scalato le stesse rocce. Le loro vite nel borgo erano sbocciate all’unisono, crescendo in direzioni differenti come giovani rami di uno stesso albero, e a distanza di pochi passi uno dall’altra, ciascuno aveva trovato un piccolo mondo tutto suo in cui mettere radici e cominciare a sbocciare. Avevano frequentato la scuola del paese condividendo per poco tempo la classe e il Maestro: Alvise, più grande di Matilde di quattro anni, aveva lottato a lungo con suo padre per poter finire la terza media invece di accompagnarlo ogni giorno con l’ascia nel bosco. Subito quello aveva rifiutato, ma il ragazzetto era ostinato, duro anche più di suo padre - come riconobbe quello anni dopo, non senza con un certo orgoglio - e così, a furia di litigare, l’aveva avuta vinta. Dopo la scuola, comunque, Alvise aveva seguito le orme paterne nel fitto del bosco, e se n’era andato a spaccare tronchi come era stato deciso il giorno della sua nascita. In verità, lui non aveva mai voluto essere qualcosa di diverso da un taglialegna, non si era intestardito sul prolungare gli studi per questo motivo: amava i boschi di Osacca e sapeva fin da bambino che lì sarebbe stato il suo futuro, ma quando la scuola gliene aveva dato l’occasione, aveva scoperto che poteva imparare dai libri cose diverse da quelle che poteva imparare dal bosco, e spinto da una fervida curiosità aveva cercato di prolungare quel piacere il più possibile. Compiuti tredici anni, aveva infine accolto il proprio destino e si era avviato con cuore sereno lungo il corridoio verde che s’inerpicava sui colli, alle spalle del padre. Tra le ombre maculate delle fronde, però, Alvise aveva portato con sé anche l’amore per i libri, scoperti nell’aula azzurra della scuola oltre la via per Costa. Nelle poche ore libere che aveva la domenica ne leggeva lentamente uno alla volta, che si faceva prestare dalla vecchissima maestra Ausilio, che gli piaceva di più dell’attuale Maestro. Alvise era contento perché aveva sempre qualcosa di nuovo da leggere, e Ausilio, che incoraggiava il suo lato sognatore con casuali versi di poesia e gualcite copie di romanzi ottocenteschi, era contenta perchè prima o poi avrebbe ricevuto una visita. Così, alla domenica, il giovane boscaiolo per qualche ora tornava scolaro, fuggiva verso la brughiera alta con il suo libro e scompariva tra le pagine fino al calare del sole. Non capiva sempre tutto di ciò che leggeva, ma rimanendo sdraiato all’ombra di un noce al limitare del prato, poteva partire a caccia di mostri marini, interrogare omicidi, o scoprire che cosa si prova quando ci s’innamora di una giovane donna che pattina nella neve di San Pietroburgo. Gli piaceva starsene lì, perché alzando gli occhi dalla pagina aveva l’impressione di poter sfiorare in un unico sguardo le colline oltre la strada per Pesche, il sentiero che partiva dal fondo di Costa, e gli striati tappeti erbosi che i contadini allacciavano in stretti covoni.
Era in quell’angolo di quiete, tra l’erba alta e il giallo del tarassaco, che Alvise incontrava più spesso Matilde, dapprima dopo l’orario di scuola e poi alla domenica, negli anni a seguire. Non si davano mai un appuntamento, ma si incontravano sempre per favore del caso o forse per una segreta consuetudine: abitanti di uno stesso paesaggio, lo condividevano ignorandosi, vigili come animali.
Preceduta nella mente di Alvise dal fruscìo degli zoccoli che pestavano leggeri sulla sterpaglia, Matilde era un soffio di vento, prima ancora che un corpo. Settimana dopo settimana lui la spiava passeggiare assorta per la brughiera: con un lungo bastone decorato da una copia di campanelli e la sacca di cotone che usava come cartella per la scuola, la ragazza andava in cerca di insetti, rocce e campioni di erbe e fiori. Matilde collezionava i primi in delle grezze ma ordinatissime teche che i genitori le avevano fatto disporre nel fienile di casa, e conservava le piante essiccate tra le pagine di in uno spesso e fragrante erbario. Questa silenziosa passione per la raccolta era sbocciata in Matilde quando era ancora bambina e accompagnava spesso sua madre a far brucare le capre in alta collina. Annoiata dal ricamo che quella portava con sé per far passare le ore immobili del pascolo, Matilde aveva iniziato a esplorare il prato e a scovarne i piccoli tesori: l’indaco delle ali di una farfalla, gli anelli di una pietra screziata, le corolle vaporose dei ciuffi di velo di sposa.A scuola aveva scoperto le scienze naturali e la biologia, che le parevano le uniche materie, assieme alla storia, capaci di accendere di un grigio più brillante gli occhi distanti del loro schivo Maestro. Le pareva che quello rispondesse più volentieri alle sue domande, se riguardavano un tipo di radice, o le proprietà di una certa erba medica. Al di là di compiacere il Maestro, com’era suo desiderio da brava scolara, Matilde amava raccogliere e classificare la natura attorno a sé soprattutto perché le dava un piacere rassicurante. Nel ridurre a fenomeni minimi il suo paesaggio, nel circoscriverlo e isolarlo tra le pagine dell’erbario e nelle teche, Matilde aveva l’impressione di essere più padrona del suo mondo, di imparare a conoscerlo e di poter dischiudere, almeno in parte, il mistero della sua la lingua ronzante e profumata. Crescendo, aveva sognato di svelare questa lingua a qualcuno, ed era in quel sogno che aveva incontrato i suoi scolari, i futuri bimbi di Osacca a cui avrebbe tramandato i segreti del bosco, della brughiera, del cielo stellato. Era una fantasia romantica, infantile, ma quell’immagine attraversò illesa i tumulti dell’adolescenza di Matilde e diede anzi una direzione alla sua vita fino alla prima età adulta, quando ormai si avviava al praticantato per diventare un giorno maestra. Alla strada che percorreva quotidianamente dalla sua casa di Pesche alla scuola, Matilde non smise mai di affiancare i sentieri che la portavano attraverso il bosco e la brughiera alta: li percorreva in cerca di nuovi fiori, di quei silenzi che aveva condiviso per anni con Alvise e che entrambi sapevano ormai mutati, da un’attesa imbarazzata a una delicata complicità.
I primi tempi si baciavano di nascosto anche quando erano immersi nel silenzio dei prati, come se una voce di vento potesse tradire il loro segreto soffiandolo fino a valle. Nonostante le loro premure, si scontrarono presto con quello che è sia il pregio che il difetto del borgo di Osacca, e cioè che esso mormora e sussurra di continuo.
I primi occhi attenti iniziarono a confidare alle tante orecchie curiose del paese che avevano visto la Matilde tornare di nuovo dal bosco con l’Alvise, o che l’Alvise da un po’ di tempo sembrava più allegro del solito; che, chissà perchè, la Matilde era proprio distratta, e che Vito il pastore li aveva visti tenersi per mano in brughiera. Per fortuna dei due innamorati, l’arrivo delle Funghe spostò drasticamente l’attenzione del borgo su di sé, e il crescente rincorrersi ed incontrarsi dei nomi di Matilde e di Alvise nei discorsi dei paesani passò sempre più inosservato, accompagnando i due innamorati all’altare senza particolare clamore. Era chiaro a tutti che i due facevano coppia fissa, e con la stessa omertosa educazione con cui si alludeva senza parlarne alla sparizione del Maestro di pochi anni prima, si tacque pubblicamente del loro amore fino all’annuncio delle nozze. Matilde e Alvise si sposarono modestamente: le famiglie e pochi amici li accolsero gettando petali di amarena alla loro uscita dalla chiesa sul Promontorio, e li seguirono poi per un pranzo offerto dai padri all’Osteria Alba Spina di Pesche. Dopo la festa, gli sposi si erano avviati verso la nuova casa che era stata costruita per loro a Costa, attraversando il borgo di Osacca e salutando con la mano: si erano lasciati alle spalle l’osteria, i lavatoi, le case di Pesche e la chiesa. Le congratulazioni dei paesani li avevano seguiti fino alla soglia di casa, e Alvise e Matilde, stanchi di tanto sorridere, erano stati felici di avere finalmente una porta da chiudersi alle spalle per essere soli. Entrati in casa si erano tolti le scarpe, e nella penombra del tramonto autunnale tinto dalla luce screziata delle Funghe, che a quell’ora fluttuavano verso il pelo dell’acqua, li aveva accolti la strana e placida sensazione di trovarsi immersi in un attimo di presente infinito, che avevano costruito e atteso per una vita, perchè durasse per tutta la vita.
Podcast ideato, scritto e registrato nell'ambito di Oltrepasso 2023, residenza artistica nel villaggio di Osacca (PR).
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Author | Akuatica - Oltrepasso 2023 |
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