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Santi e beati - BastaBugie.it

  • Una stigmatizzata fuori dal comune

    24 APR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7773 UNA STIGMATIZZATA FUORI DAL COMUNI di Rino Cammilleri Ho scrutato attentamente il video che il dottor Paolo Basso da Crema mi ha recapitato sulla beata Maria Domenica Lazzeri, detta la "Meneghina", nata nel 1815 e morta nel 1848. Diciamo subito, per chi non lo sapesse, che si tratta di una stigmatizzata. Stavo per scrivere "la solita stigmatizzata", perché essendomi occupato per trent'anni, ogni giorno, prima sul quotidiano Avvenire e poi Il Giornale, di santi e beati, di stigmatizzate ne ho viste tante. Quante siano potete agevolmente contarle, se avete pazienza, sul sito santiebeati.it. Da Caterina da Siena, a Teresa Neumann, eccetera. Mai, però, avevo considerato il fatto che queste mistiche sanguinanti fossero tutte donne. Sì, abbiamo il Poverello e Padre Pio. E basta, almeno che io ricordi. Tutte le altre sono donne, sempre donne. Queste strane privilegiate dal Cielo in genere non devono far altro che starsene in un letto a patire. Qualcuna ha visioni e detta libri, come Katharina Emmerick. Qualche altra manifesta i dolori della Passione in periodi ricorrenti e limitati, come Natuzza Evolo. Qualche altra ancora, come Elena Aiello, continua a occuparsi dei suoi orfanotrofi. Ma le più devono solo fare le "vittime". Perché donne? Forse perché sono più delicate e fragili? In effetti ciò si accorderebbe con il risultato modus operandi del Cielo: scegliete il personaggio più improbabile onde mostrare che quanto gli accade viene solo esclusivamente dall'Alto. La potenza di Dio si manifesta meglio nella debolezza, come dice Paolo. E più la creatura prescelta è inadeguata, più appare, a chi voglia vederla, l'opera di Dio. RIMANEVA MORTA Naturalmente noi crediamo che la ricompensa per tali "vittime" sarà straordinaria, altrimenti prendere una ragazza minuta e insignificante, confinarla in un letto di dolore senza mangiare, né bere, né dormire, ma solo e sempre sanguinare tra le sofferenze più atroci sarebbe puro sadismo. Ma noi sappiamo che il Creatore è Bontà e Amore, perciò non ci resta che aggrapparci alla Fede. E veniamo alla Nostra. Al solito, nasce in un posto sperduto e dimenticato, Capriana in Val di Fiemme, Trento. Figlia di un povero mugnaio fin da subito conosce la fatica e i geloni alle dita in un tempo e in un luogo in cui se vuoi scaldarti devi prima far legna e accendere il camino. Ultima di cinque figli, dopo qualche anno di scuola, va a servizio, anche perché il padre è nel frattempo morto. Nel 1833, mentre si prodiga per i malati d'influenza, rimane contagiata. A quel tempo o si guarisce o si muore di polmonite. Lei, invece, sviluppa un crescendo di sintomi mai visti prima che in breve la confinano a letto, impedita a mangiare, bere e dormire. Riesce solo a "inghiottire" l'ostia, di cui nell'800 bisogna essere "degni", perciò mensile. Chiamata in paese "meneghina" ("Domeneghina"), ha diciannove anni quando comincia: sudorazione di sangue come nel Getsemani, ferite sulla fronte come da coronazione di spine, stigmate alle mani, al torace e ai piedi. Le mani sono artigliate, come si suppone siano state quelle inchiodate di Cristo, i piedi sempre sovrapposti. Ogni venerdì, all'ora della morte di Cristo, anche lei rimane morta per diverso tempo. Sì, morta. Indi si rianima e si riparte con il calvario. IL SANGUE OLTRE LA GRAVITÀ Gli scienziati che scrutano il caso sono intrigati anche dal fatto che su di lei il sangue gocciola non seguendo la gravità, ma come se davvero fosse appesa verticale a una croce. E ciò accade tutti i venerdì, per quattordici anni (per chi ama le coincidenze sempre in questi casi c'è il bicchiere mezzo pieno: la mistica è in grado di seguire omelie pronunciate in altri luoghi e di riferire cose dette altrove, di comprendere lingue straniere e pure antiche, di bilocarsi). Naturalmente, il caso fa scalpore e in breve la sua casa è assediata da visitatori provenienti da ogni dove. Anche semplici curiosi, certo. Ma per fortuna il vescovo competente è il beato Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, che prende a cuore la vicenda e provvede a disciplinare l'accesso. Il primario dell'ospedale di Trento, dopo accurato studio, stende una relazione che viene presentata in ben tre congressi scientifici nazionali. Vengono illustri personaggi da tutta Europa, viene il beato Antonio Rosmini, perfino l'Arcivescovo di Sidney. Scoppia il caso sulla stampa, fogli cattolici e fogli protestanti incrociano le lame. Diversi editori europei fiutano l'affare e sguinzagliano agenti alla ricerca di testimoni oculari per cavarne libri e opuscoli a sensazione, i pamphlets il più delle volte di scaso valore, ma che concorrono alla divulgazione della notizia. Malgrado l'interessata non abbia mai voluto fotografie. Che pensare di tutto questo? Perché Dio sceglie una "vittima" e la massacra (o permette che lo sia, ma è lo stesso) per tutta la vita? Certo la cosa è sempre su base volontaria e se qualche farabutto conclamato scansa la dannazione eterna proprio grazie a queste mistiche che accettano di farsi maciullare al loro posto dalla Bontà Divina? HA RAGIONE DIO Si, Uno potrebbe osservare che Cristo in croce ci rimane tre ore, mica 14 anni, cioè 728 venerdì. Ma, attenzione, la prescelta assenziente viene fornita di un dono speciale: l'amore per la croce. La meneghina, si scoprì, portava il cilicio. Come se non le bastassero le sofferenze inaudite che doveva sopportare. Nella letteratura mistica questo fenomeno è chiamato "follia della croce", che, seppure alla lontanissima, può essere paragonato a quel che prova un padre che si fa togliere un rene per salvare la vita al figlio. Forse l'esempio è inadeguato, ma non me ne vengono altri. E non me ne vengono perché io, come voi, aborro la sofferenza e faccio di tutto per evitarla. Siamo fatti per la gioia, non per il dolore (il che dimostra che il peccato originale è un fatto storico). È per questo, temo, che a molti la preghiera sembra una perdita di tempo: se fosse efficace, se venissimo sempre esauditi, saremmo tutti in ginocchio. Ma ogni nostra preghiera - ci si faccia caso - è una richiesta per toglierci una croce. O la croce. Forse è per questo che di solito non succede niente. Si, poi il devoto spiega che Dio ascolta, ma si riserva dell'esaudimento al tempo opportuno; oppure che stai chiedendo la cosa sbagliata, oppure che... La solita arrampicata sugli specchi perché Dio, per definizione, ha sempre ragione e tu torto. Come Giobbe, cui alla fine Dio rispose come il Marchese del Grillo. Insomma, boh. Proviamo a chiedere lumi alla Meneghina.
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  • Principessa, schiava e infine suora

    9 APR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7755 PRINCIPESSA, SCHIAVA E INFINE SUORA di Rino Cammilleri Oggi parliamo di una suora africana, negra ed ex schiava. No, non si tratta di Giuseppina Bakhita, che è già canonizzata. Mi riferisco a Teresa Chikaba, che non era sudanese come Bakhita, ma veniva dall’Africa subsahariana, quella che ai suoi tempi veniva chiamata Africa nera. Teresa Chikaba è in attesa di beatificazione, e sarebbe anche l’ora, dati i molti miracoli testimoniati per sua intercessione. Ma andiamo con ordine. Non sappiamo se avesse altri nomi oltre a Chikaba; in base ai suoi racconti sappiamo che era nata in Guinea nel 1676 e che era una principessa. Ora, il termine principessa ci fa subito pensare alle case reali europee, col loro fasto e le trine e le parrucche incipriate. Quanto fosse esteso il "regno" di suo padre non è dato conoscere, ma è probabile che quest’ultimo non fosse altro che uno dei tanti capitribù. Chi comandava davvero da quelle parti erano i portoghesi, che avevano fatto della Guinea, insieme ai confinanti Angola e Mozambico, una loro colonia fin dal secolo precedente. Sì, perché, dopo che il rullo islamico aveva spazzato via l’Africa romana e cristiana, il continente aveva visto secoli di guerre inter-tribali per procurarsi schiavi da vendere agli arabi. Fino a quando i navigatori portoghesi nel XV secolo non inaugurarono il ritorno dei missionari al seguito dei coloni. FUTURA REGINA Dietro esploratori e poi coloni spagnoli, francesi e, via via, olandesi belgi, inglesi, tedeschi e infine italiani, la parola Vangelo era rientrata in Africa, con i suoi successi più o meno limitati e i suoi, ovviamente, martiri. Per questo è altresì probabile che la famiglia di Chikaba, i suoi genitori e i fratelli fossero venuti in contatto con i missionari cattolici, dato che questi sempre seguivano la fondazione di una colonia da parte di una potenza cattolica. Lei stessa narrò che, una volta, dovendo seguire la sua famiglia nel prescritto pellegrinaggio all’idolo che i nativi chiamavano Lucero, mentre eseguiva la prostrazione rituale sentì una sorta di vuoto dentro, un senso di insoddisfazione infinita, una delusione cocente. Perché? Qualunque cosa fosse quella sensazione inaudita e insopportabile, fu forse l’inizio della sua conversione. In ogni caso, il risultato fu per lei un desiderio di imitazione dei missionari cristiani, nel senso che da allora prese a occuparsi dei malati, dei bambini, dei bisognosi con un trasporto che finì col procurarle la stima degli altri indigeni. Tanto da allarmare i suoi fratelli. Infatti, questi temevano che, quando fossero morti i loro genitori, il popolo avrebbe riversato il suo favore su Chikaba, eleggendo lei come regina e defraudando le aspettative dei maschi della famiglia sul trono. Chikaba dovette fare i salti mortali per rassicurarli: non aveva alcuna mira politica, anche se non sapeva bene nemmeno lei che cosa volesse nella vita. In ogni caso, ci pensarono gli eventi a decidere per lei. RAPITA DAGLI SPAGNOLI Un brutto giorno un raid di razziatori spagnoli rapì lei e altri nativi per venderli come schiavi. Non avrebbe rivisto mai più la sua terra e la sua famiglia. Caricata con gli altri schiavi su una nave, fu portata in Spagna. Durante il tragitto i trafficanti appresero che si trattava di una principessa e cominciarono a trattarla bene. Oh, non per riguardo al rango, ma perché da lei si poteva cavare un miglior prezzo. Infatti, venne acquistata dai duchi di Mancera, che la portarono nel loro palazzo di Madrid. La differenza tra gli schiavi domestici nei luoghi cattolici e in quelli protestanti stava in questo: i primi erano considerati dei paggi e praticamente adottati, entravano cioè a far parte della famiglia, come si può vedere in molti dipinti dell’epoca. Gli spagnoli non tenevano dunque schiavi? Sì, ma si trattava quasi sempre di saraceni catturati e messi ai remi o adibiti ai lavori più pesanti, in attesa di poterli scambiare con gli schiavi cristiani in mano ai barbareschi o ai turchi. Chikaba poté dunque per l prima volta in vita sua indossare dei veri abiti e nutrirsi con una vera cucina, dormire in un vero letto e avere una o più stanze tutte per sé. Volentierissimo accolse il Battesimo, per il quale ebbe gli stessi duchi come padrini. Si accorse anche di aver trovato quel che sempre aveva cercato, che il cristianesimo riempiva totalmente quel vuoto che le si era impresso dolorosamente dentro da quando era andata ad adorare Lucero. E tanto sul serio prese il suo Battesimo che, compiuti i ventiquattro anni, espresse il desiderio di farsi suora. Si tenga presente che la sua educazione, i suoi modi e la famiglia adottiva le avrebbero consentito un buon matrimonio. Gli spagnoli non erano razzisti: Darwin era inglese e di là da venire. Forse che il padre di san Martino de Porres non era un gentiluomo spagnolo (e la madre una africana?)? Forse che molti conquistadores non si erano sposati con donne incas e azteche? Forse che il grande scrittore Garcilaso de la Vega non era di madre inca? E poi una buona dote non avrebbe mancato di attirare gli hidalgos iberici. GLI ANNI IN CONVENTO No, la vocazione di Chikaba era sincera e totale. Solo che c’era un problema. Nessun convento la accettava. Sì, c’entrava proprio il colore della sua pelle. Non c’erano precedenti di suore africane in Spagna, e una suora negra avrebbe finito col trasformare il convento in cui fosse ospitata in un’attrazione per i curiosi, con nocumento della necessaria clausura, una clausura che - va detto - a quel tempo era piuttosto larga e certe visite altolocate non si potevano rifiutare. Solo nel 1708, convinto dalla schiettezza della sua vocazione, l’Arcivescovo di Salamanca ordinò alle suore domenicane del Terz’ordine di Santa Maria Maddalena di accoglierla come conversa. Finalmente, Chikaba poté prendere il velo e il nome religioso di Teresa. Malgrado la sua estrazione nobile, si adattò facilmente ai lavori domestici ai quali fu adibita. Ci vollero ancora degli anni prima che un altro Vescovo decidesse di ammetterla ai voti. E finalmente fu suora domenicana. I quarant’anni di vita che le restavano li trascorse tutti lì, a Salamanca, nel convento dove aveva spazzato e lavato i pavimenti. Morì in odore di santità il 6 dicembre 1748. Il suo corpo riposa nel monastero che a Salamanca chiamano delle Duenas. Molti miracoli sono attribuiti a questa principessa africana, schiava, adottata dal duca di Mancera, suora domenicana. I progressi del suo processo canonico? Mistero. Sotto papa Bergoglio tutti i lavori della Congregazione apposita sono stati segretati, chissà perché.
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  • Il buon ladrone a cui Gesù promette il paradiso subito

    26 MAR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7736 IL BUON LADRONE A CUI GESU' PROMETTE IL PARADISO SUBITO di Roberto De Mattei La liturgia latina della Chiesa ricorda il 25 marzo san Disma, il buon Ladrone, a cui Gesù disse sul Calvario: "Oggi sarai con me in Paradiso". La scelta del 25 marzo non è casuale. Questa data non è solo quella dell'Annunciazione e dell'Incarnazione del Verbo ma secondo un'antica tradizione è anche il giorno in cui il Salvatore dell'Umanità consumò il suo supremo sacrificio. Il Vangelo ci dice che sul Calvario crocifissero Gesù con due Ladroni, mettendone uno alla sua destra e uno alla sua sinistra (Lc, 23, 39-42). Ne conosciamo il nome dai Vangeli apocrifi: Disma il buon Ladrone e Gisma, o Gesta il cattivo Ladrone. La parola Ladrone non deve trarre in inganno. Il termine Latrones indicava i briganti da strada, non solo ladri, ma assassini e rapinatori, puniti di morte presso tutti i popoli dell'antichità. Per umiliare Gesù furono scelti i più scellerati tra i tanti che riempivano le prigioni di Pilato. Disma era un capo brigante, probabilmente egiziano, vissuto e invecchiato tra i delitti più gravi, tra i quali quello di fratricidio. Sulla sua croce era scritto: Hic est Dismas latronum Dux La morte in croce era tra le più dolorose e il condannato soffriva terribilmente, sospeso a quattro chiodi. I due malfattori imprecavano tra gli spasimi, mentre Gesù sopportava i tormenti con pazienza inalterabile. Le sue prime parole sulla Croce furono di misericordia per i suoi carnefici: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc, 23, 24). Entrambi i Ladroni ascoltarono queste parole, entrambi ricevettero la grazia sufficiente a riconoscere l'innocenza di Cristo, ma uno si convertì, l'altro continuò a bestemmiare. San Luca racconta che dei due ladri, appesi alla Croce accanto a Cristo, uno si beffava di lui dicendogli: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente siamo condannati alla Croce, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gesù gli rispose: "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso" (Lc, 39-43).  Disma dunque insorge alle parole di oltraggio contro Gesù del suo compagno di rapine e lo corregge apertamente, in maniera severa, accusandolo di non capire che Gesù è innocente, mentre loro sono colpevoli e giustamente condannati. Il suo è un atto di pentimento, ma egli non si limita a riconoscere le proprie colpe, proclama l'innocenza di Cristo, dicendo: "Non ha fatto niente di male". Lo proclama, quando tutto il mondo condanna Gesù e gli Apostoli tacciono. Disma rompe il silenzio, afferma pubblicamente la verità. LA GRAZIA DELLA FEDE Per affermare l'innocenza di Gesù era sufficiente la luce della ragione, illuminata dalla grazia, per proclamarlo Dio era necessaria la grazia sfolgorante della fede. Dopo aver difeso Gesù contro il cattivo ladrone, Disma riceve la grazia della fede soprannaturale che esprime nelle parole: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"(Lc, 23, 42). Non era tra coloro che avevano seguito Gesù nella sua predicazione, nessun angelo glielo aveva suggerito. Non vedeva la Divinità di Cristo, ma un'umanità sfigurata dalle sofferenze. Eppure, pur vedendolo crocifisso, non dubitò che fosse Dio. San Roberto Bellarmino dice, "Chiama Signore uno che guarda nudo, ferito, sofferente, deriso e schernito pubblicamente, appeso con lui e afferma che dopo la morte andrà nel suo regno. Da ciò si comprende che egli non sognava un regno temporale di Cristo sulla terra, come aspettavano i Giudei, ma un regno eterno dopo la morte nel Cielo. Chi gli aveva insegnato misteri così alti? Nessuno certamente, se non lo spirito di verità" (Le Sette parole di Cristo, in Scritti spirituali, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 556-557). Gesù aveva detto: "Chi mi confesserà davanti agli uomini io lo confesserò ed onorerò dinnanzi al Padre Mio e ai suoi Angeli" (Mt, 10, 32). E mantiene la promessa. Disma otterrà la più preziosa delle ricompense. La parola di Disma "Domine, memento mei, cum veneris in Regnum tuum" è una preghiera che va ripetuta con cuore umile e fiducioso. A questa preghiera Gesù risponde: "Amen dico tibi: hodie mecum eris in Paradiso"; "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso". E' la seconda parola di Gesù in Croce. La parola Amen è quasi il giuramento di Cristo, che non dice a Disma, sarai con me in Paradiso nel giorno del Giudizio, e neppure tra qualche anno, mese o giorno, ma promette che quel giorno stesso si sarebbero aperte per lui le porte del Cielo. "Oggi sarai con me in Paradiso", sono le parole più angeliche e armoniose che possano risuonare ad un orecchio umano ed è per questo che tanti compositori, da Franz Joseph Haydn a Charles Gounod, a Théodor Dubois, le hanno messe in musica, con commoventi melodie che cantano la speranza della salvezza eterna. LA RAGIONE DELLA CONVERSIONE La ragione della conversione di Disma fu la grazia divina che ne inondò l'anima. I Padri attribuiscono la causa strumentale di questa conversione all'ombra che Cristo proiettava sul Ladrone, mentre pronunciava le sue prime parole in Croce. Il volto di Cristo, scrive mons. Jean-Joseph Gaume (1802-1879), era rivolto a Occidente, il sole era a mezzogiorno e l'ombra del Redentore si stese alla sua destra su Disma chiamando il buon Ladrone dal nulla del peccato alla vita della grazia (Storia del buon ladrone, Tip. Ranieri Guasti, Prato 1868, pp. 135-136). Ma se è vero che ogni grazia viene da Maria, come dubitare del ruolo primario della Madonna nella conversione di Disma? Ella si trovava in piedi, tra la Croce di Cristo e quella del buon Ladrone e pregò certamente per lui. Quando poi udì le parole di Disma ne ebbe un'immensa consolazione, perché queste parole proclamavano davanti al Cielo e alla terra le verità dell'innocenza del Figlio e della sua divinità. Nel Venerdì santo, nessuno, al di fuori di Disma, ebbe una fede simile a quella incrollabile di Maria. Tre croci si innalzano sulla cima del Calvario. Alla destra l'umanità penitente che sta per salire in Cielo. Alla sinistra l'umanità impenitente che cade nell'inferno. Nel mezzo è l'Uomo-Dio Giudice supremo dei vivi e dei morti. Nel giorno del Giudizio, gli eletti saranno alla destra del divino giudice, ed alla sinistra i reprobi. Di due che staranno sul campo, dice il Vangelo, uno sarà preso e uno sarà lasciato (Lc, 17, 34). Il buon Ladrone è l'immagine degli eletti, il cattivo ladrone dei riprovati. Tra gli straordinari miracoli che seguirono alla morte di Gesù ve ne fu uno impressionante, che san Matteo descrive con queste parole: "i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti" (Mt, 52-54). Profeti e Re di Israele furono tra coloro che apparvero per le vie di Gerusalemme convertendo alcuni, ma senza riuscire a scuotere l'incredulità dei molti. Quale stupore fu per gli abitanti della Città santa vedere tra questi risorti il vecchio brigante Disma proclamare la verità di Cristo, trasfigurato nell'anima e nel corpo. I risorti rimasero a Gerusalemme fino al momento dell'Ascensione quando Gesù li portò con sè in Cielo. La sentenza secondo cui i risorti del Calvario sono in Cielo anima e corpo è, secondo i teologi, la più sicura e tra questi risorti, bisogna annoverare san Disma, il buon Ladrone (Gaume, op. cit. pp. 278-288). San Disma è il protettore dei peccatori che si trovano in punto di morte. Oggi il mondo oltraggia Cristo come il cattivo ladrone sul Calvario. Chiediamo al buon Ladrone di infondere il suo spirito penitente e fiducioso nell'Occidente che muore. La promessa di Fatima ha la stessa dolcezza delle seconde parole di Gesù in Croce. Il trionfo del Cuore Immacolato di Maria sarà il paradiso storico delle nazioni, cioè la restaurazione della civiltà cristiana che seguirà all'inferno storico del nostro tempo.
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  • La terribile storia dimenticata dei francescani martirizzati dai musulmani

    12 MAR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7723 LA TERRIBILE STORIA DIMENTICATA DEI FRANCESCANI MARTIRIZZATI DAI MUSULMANI di Rino Cammilleri Oggi voglio ricordare i sette francescani, e non solo loro, che nel 1920 vennero martirizzati dai musulmani. Nel 1920,dunque dopo la fine della Grande Guerra, dopo i trattati di pace, dopo che Kemal Ataturk aveva respinto i Greci e salvato la Turchia. Che, lo ricordiamo, era stata alleata degli sconfitti Imperi centrali. Il genocidio del popolo armeno - il primo, nella storia, a convertirsi al cristianesimo - era stato completato da un pezzo, i turchi, stretti tra i Bolscevichi di Lenin a nord e le potenze occidentali, soprattutto Inghilterra e Francia, che si spartirono il loro ex impero, dopo aver orribilmente incendiato Salonicco (la più ricca delle loro città, ma ricca grazie a greci e armeni), visto che Ataturk intendeva modernizzare il suo popolo vietando fez, veli e barbe per dare un sterzata laica alla vita turca (ben rendendosi conto che la causa dell'arretratezza stava proprio nella religione), avrebbero potuto smetterla con le scimitarre e l'uccisione inutile e insensata dei cristiani. Invece no. Ecco la storia che andiamo a raccontare. Alla fine del 1919 tre francescani, due  italiani e un ungherese, vennero assegnati dalla Custodia della Terra Santa a Mugiukderest, in Armenia. Erano padre Francesco De Vittorio (38 anni), fratel Alfredo Dolentz (67), austriaco, e fratel Salvatore Sabatini (45). La missione era completamente distrutta e ora, a guerra finita, la Custodia intendeva ripristinarla in qualche modo. Provvisti di denaro, i tre riuscirono a farvi affluire le famiglie superstiti e a radunare la trentina di bambini rimasti orfani. Sotto la loro direzione si cominciò a riattare qualche casa e, soprattutto, a impiantare un orfanotrofio per quei bambini abbandonati che chissà come erano riusciti a scappare al genocidio. I tre frati erano tutto: medici, farmacisti, vivandieri, maestri, padri. Ma nel gennaio del 1920 ricominciò l'incubo: la notizia che i massacri di cristiani erano ripresi giunse fino alla missione e quei poveri disgraziati, la cui sfortuna non sembrava aver mai fine, presero a disperarsi. Dove altro sarebbero potuti andare? Ora che avevano riguadagnato un minimo di tranquillità, pur nella miseria, bisognava di nuovo scappare? UN INVITO A CENA Leggo in una vecchia news del Centro studi Giuseppe Federici che ai tre frati, in pensiero per i loro orfanelli, si presentò uno del posto, un musulmano di cui avevano fatto la  conoscenza e che si era comportato sempre amabilmente con loro. Ne conosciamo il nome: Leuimen Oglu Alì. Aveva una grande casa e si  offrì di ospitare i missionari e tutti gli orfanelli. Anzi, poiché c'era ancora posto, poteva accogliere anche tutti i pochi cristiani del luogo. E arrivò a mettere a disposizione alcuni locali per gli oggetti, le cose care che ognuno avesse ritenuto di portare con sé. Cominciò così il trasloco. In quella nuova casa sarebbero stati al sicuro, così aveva garantito loro l'anfitrione. Anche se si fosse scatenato il pogrom, lui li avrebbe protetti, perché nessuno avrebbe osato violare la casa di un notabile musulmano. Erano a cena, gentilmente offerta dal loro ospite, quando i tre frati sentirono colpi di fucile provenienti dalla strada. D'istinto si alzarono da tavola per sbirciare dalle finestre, ma a quel punto Leuimen Oglu Alì gettò la maschera. Estratta una pistola, mentre i tre gli davano le spalle li freddò con pochi colpi, poi andò ad aprire il portone di quelli fuori, con cui era d'accordo. Dei cristiani e orfanelli non ne rimase vivo neppure uno. Poi la banda di assassini andò a saccheggiare la chiesa, l'orfanotrofio e le case delle vittime, completando l'opera con un bel falò di tutto. Tutto questo accadde il 23 gennaio 1920. CHIESA BRUCIATA Padre Alberto Amarisse, 46 anni, era superiore alla missione di Jenige-Rale. Negli stessi giorni i turchi invasero l'Armenia e uccisero lui e tutti gli altri cristiani. Padre Stefano Jalincatjan, 51 anni, armeno, era superiore alla missione Donkalè. Scappato all'ora dalle guerra, era tornato per riunire i superstiti e cercare di ricostruire quanto era stato distrutto. Ma il 23 gennaio 1920 i turchi tornarono. Capeggiati da tal Naggiar Mustafà, si avventarono nel villaggio e presero a incendiare tutto. I cristiani si rifugiarono in chiesa e, nella missione, mentre i turchi li calpestavano di fucilate. Ma prevalse l'opinione di risparmiare munizioni, visto che quelli si erano barricati. Così, mano alla benzina, diedero fuoco a tutto e arrostirono gli sventurati, missionario compreso. Al giovane fratel Giuseppe Achillian, 25 anni e armeno pure lui, andò meglio. Nel senso che non morì ammazzato. Invasa l'Armenia, ricominciarono le marcie forzate della popolazione cristiana. Molti morirono di stenti e fatica. Lui, il più giovane e in forze, partito il 23 gennaio, resistette fino al 15 del mese successivo. Ma, arrivato ad Adana, schiantò per lo strapazzo. E, se questa fu la sorte, figurarsi quella di donne, vecchi e bambini. L'italiano padre Leonardo Bellucci, 39 anni, dopo il servizio militare (il clero italiano non era ancora esentato, lo sarà con Mussolini), finita la guerra fu assegnata alla missione di Aleppo come economo e insegnante nel collegio che i francescani avevano là. Stava recandosi a Gerusalemme in treno quando, alla stazione di Kherbet el- Ghazi, un gruppo di beduini armati lo costrinse a scendere. Venne freddato sul posto a colpi di fucile. E, non contenti ne impalarono il cadavere. Allah è grande. Forse Abramo sbagliò a mettere incinta Agar...
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  • Sant'Antonio abate e la benedizione degli animali

    7 FEB 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ hthttps://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7690 SANT'ANTONIO ABATE E LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI di Don Stefano Bimbi La vita di Sant'Antonio abate è descritta nella Vita Antonii di Sant'Atanasio, vescovo di Alessandria e dottore della Chiesa, che ebbe da lui un aiuto nella lotta contro l'arianesimo. Questa era l'eresia combattuta dal Concilio di Nicea per eliminare l'idea che Gesù fosse solo uomo e non vero Dio. Sant'Antonio è considerato il fondatore del monachesimo orientale, mentre quello occidentale si fa risalire a San Benedetto da Norcia. Risale al santo anche il nome dell'herpes zoster, popolarmente noto come fuoco di sant'Antonio, una malattia virale della cute e delle terminazioni nervose, causata dal virus della varicella infantile. VITA DI SANT'ANTONIO Sant'Antonio nacque a Coma un villaggio del Basso Egitto nel 251, figlio di benestanti contadini cristiani. Rimase orfano a vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare. Sentì presto la vocazione ascoltando il vangelo dove Gesù dice al giovane ricco «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri» (Mt 19,21). Distribuiti i beni ai poveri e sistemata la sorella, iniziò a vivere come un anacoreta nel deserto attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità. In una visione vide un eremita che passava la giornata tra la preghiera e l'intreccio di una corda. Da questo capì che, oltre alla preghiera, si sarebbe dovuto dedicare ad un'attività concreta. Diventerà il principio dell'ora et labora che caratterizzerà anche in Occidente la vita monastica da San Benedetto in poi. Sant'Antonio condusse quindi una vita ritirata in perfetta solitudine. I frutti del lavoro gli servivano per sostentarsi, ma anche per fare la carità ai poveri. Nei primi anni di vita ritirata fu tormentato da tentazioni fortissime, inclusi dubbi sul senso della vita solitaria. Consultando altri eremiti fu esortato ad andare avanti. Anzi gli fu consigliato di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo. Fu così che, indossando solo un rude panno, si chiuse in una tomba nella roccia. Qui fu aggredito e percosso dal demonio; senza sensi fu trovato dalle persone che si recavano spesso da lui per portargli del cibo. Fu portato nel villaggio, dove guarì. In seguito Sant'Antonio si spostò sul monte Pispir, vicino al Mar Rosso, dove si rinchiuse in una vecchia fortificazione. Vi rimase per 20 anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva portato due volte all'anno. Anche qui fu tormentato dal demonio. Alla fine molte persone, per stargli vicino e chiedergli consiglio e aiuto, abbatterono le mura del suo rifugio. Sant'Antonio allora si dedicò a guarire i sofferenti ed a liberare gli indemoniati. Durante la persecuzione dell'imperatore Massimino Daia rientrò ad Alessandria per confortare i cristiani che venivano ferocemente perseguitati. Tornata la pace, Sant'Antonio visse i suoi ultimi anni nel deserto. Morì all'età di 105 anni il 17 gennaio del 356. Ecco perché la sua festa si celebra il 17 gennaio di ogni anno. PROTETTORE DEGLI ANIMALI DOMESTICI Sant'Antonio è ricordato anche come protettore degli animali domestici e viene raffigurato con un maiale che reca al collo una campanella. Per la sua festa la Chiesa benedice gli animali e le stalle. Ci si potrebbe chiedere se sia il caso di benedire gli animali oppure se sia solo una moda derivante dalla diffusione degli animali come surrogati di un figlio, ma la risposta non può che essere affermativa. Infatti il primo a benedire gli animali è stato Dio stesso. Come ci ricorda la Genesi, dopo aver creato gli animali Dio li benedisse dicendo: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra» (Gn 1,22). Siate fecondi e moltiplicatevi vuol dire crescere di numero, cioè godere di buona salute per avere lo sviluppo voluto da Dio. Purtroppo con il peccato originale anche la natura animale partecipa della ferita della natura umana e quindi anche gli animali sono soggetti alle malattie e alla morte. Inoltre il Diavolo non solo può colpire gli uomini, ma anche i beni che a lui appartengono e quindi, tra questi, anche gli animali. Le benedizioni per gli animali si trovano nel Rituale Romanum. C'è anche una benedizione se sono colpiti da gravi infermità chiedendo a Dio che venga cancellato ogni diabolico potere su di loro. Certamente il fatto che la Chiesa benedica gli animali, non vuol dire che questi abbiano la stessa dignità degli uomini. Oggi va di moda difendere i diritti degli animali (contro i diritti degli uomini), come prima erano stati esaltati i diritti degli uomini (contro i diritti di Dio). È quindi bene ricordare che anche Hitler fu un animalista (e vegetariano). A prova di ciò basti sapere che una delle prime leggi che fece approvare proibiva la vivisezione sugli animali. Sappiamo come è andata a finire... gli esperimenti sono stati fatti sugli uomini. L'IDEOLOGIA ANIMALISTA Purtroppo l'ideologia animalista sta permeando sempre più la società e ciò è dovuto anche alla massiccia campagna per i presunti diritti degli animali sui mezzi di comunicazione. Ad esempio è frequente trovare nei tg un servizio che parli di cura degli animali o di ingiusti maltrattamenti nei loro confronti. È talmente assillante che ormai pare quasi introdotto un nuovo genere di peccato: l'abbandono degli animali. Vorrei invece ricordare che abbandonare un animale non è un peccato. Può essere una cosa non bella, ma non è un peccato. Semmai abbandonare un anziano è un peccato, però di questo raramente parlano i tg, per cui, sono certo, alla frase "abbandonare un animale non è un peccato" si troverebbero molte persone indignate. Eppure basterebbe ricordar loro che decidere cosa è peccato non è compito della televisione, ma di Dio. Sempre nei succitati servizi televisivi capita spesso che per descrivere i maltrattamenti sugli animali si arrivi a dire "animali trattati in modo disumano". Ora mi pare evidente che l'espressione riveli che esiste una gerarchia nella natura umana che prevede che l'uomo sia superiore agli animali. E ciò è confermato dall'altra espressione usata quando invece sono maltrattati degli uomini, si dice infatti "uomini trattati come bestie". In conclusione, per la festa di Sant'Antonio la Chiesa benedice gli animali perché li considera creature che Dio ha messo al fianco dell'uomo per migliorare la sua vita. La posizione della Chiesa, bene espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, mi pare equilibrata e secondo verità. E profondamente contraria alle ideologie del mondo che si rivelano, al contrario, fortemente disumane. Hitler docet! Nota di BastaBugie: per approfondire l'articolo di Don Stefano Bimbi alla luce di quello che insegna la Chiesa riportiamo cosa dice il Catechismo della Chiesa Cattolica sugli animali. 2416 - Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura. Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali. 2417 - Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine. È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contribuiscono a curare o salvare vite umane. 2418 - È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita. È pure indegno dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.
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  • Emilia Kaczorowska, la mamma di san Giovanni Paolo II

    22 NOV 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7603 EMILIA KACZOROWSKA, LA MAMMA DI SAN GIOVANNI PAOLO II di Renzo Allegri La madre di Giovanni Paolo II, Emilia Kaczorowska, era figlia di un sellaio lituano, ma era nata in Slesia il 26 marzo 1884. Aveva otto fratelli. La famiglia si trasferì a Cracovia quando Emilia era ancora piccola e fu bersagliata da dolori e disgrazie. In pochi anni, Emilia perse quattro fratelli e anche i genitori. Per alcuni anni crebbe in un Collegio delle suore della Misericordia. Poté frequentare solo le scuole elementari. Poi dovette pensare a guadagnarsi da vivere facendo la sarta. Era gracile e cagionevole di salute, ma era molto bella. Maria Janina, una coetanea di Emilia, nel 1978, subito dopo l'elezione a Pontefice di Karol Wojtyla, ricordava: «Emilia Kaczorowska, da ragazza, era la più bella ed elegante di Wadovice. Abitavamo nella stessa casa. Era snella, aveva profondi occhi neri e un sorriso disarmante. Di carattere era gaia e sempre serena. Vestiva modestamente, ma era distinta, molto femminile. Si confezionava lei stessa i vestiti. Aveva capelli lunghi e si pettinava, come si usava allora, puntandoli tutti in alto». Il padre del Papa si chiamava Karol. Al figlio poi diede il proprio nome, come si usava spesso allora. Era nato nel 1879. Era figlio di un sarto e anche lui aveva imparato il mestiere del sarto, ma poi lo aveva abbandonato per un posto di ufficiale di carriera nell'esercito. «Era alto, con spalle molto dritte e aveva un incedere armonioso», raccontava Maria Janina, la vicina di casa. «Gli stivali lunghi e la divisa militare con le scintillanti tre stellette di sottufficiale sul colletto gli davano fascino ed eleganza. Era molto ammirato dalle ragazze. Anche Emilia si era nascostamente innamorata di lui, e fu felicissima quando Karol la scelse come fidanzata». I due giovani si erano conosciuti nella chiesa cattolica di Cracovia che entrambi frequentavano. Emilia se ne era innamorata subito. Secondo un rapporto dell'esercito austriaco, dove Karol prestava servizio, egli era «onesto, leale, serio, educato, modesto, retto, responsabile, generoso e instancabile». Era anche un affascinante parlatore. Tutte doti preziose, immediatamente apprezzate da Emilia. IL MATRIMONIO E I FIGLI Si sposarono il 10 febbraio 1904 e subito dopo si trasferirono a Wadowice, dove aveva sede un prestigioso reggimento di fanteria in cui Karol Wojtyla svolgeva compiti amministrativi. Nell'agosto del 1906, Emilia diede alla luce un maschietto, che fu chiamato Edmund. Ma già fin da quel primo parto risultò che Emilia aveva una salute gracile e che successive maternità potevano essere fatali per lei. I medici quindi le consigliarono di non avere altri figli. La vita dei coniugi Wojtyla a Wadowice trascorreva serena. Lo stipendio di Karol non era pingue ma sufficiente. Emilia lo amministrava con oculatezza. Lavorava anche lei come sarta contribuendo al bilancio familiare. Amava vestire bene il suo bambino e andava a comperargli qualche vestitino a Cracovia. Edmund era intelligente, studiava con profitto. Emilia decise che quel suo ragazzo doveva frequentare l'università e diventare importante. Era orgogliosa di lui. Nel 1914 però Emilia rimase di nuovo incinta. La gravidanza questa volta fu difficile, il parto complicato e nacque una bambina che visse poche ore. Emilia la volle chiamare Olga, come la propria sorella morta a soli 22 anni. Quella difficile maternità e la perdita della bambina segnarono molto Emilia. Fisicamente ma anche psicologicamente. Era diventata una donna molto sofferente. Andava soggetta a fortissimi mal di schiena che le impedivano perfino di reggersi in piedi. Inoltre veniva presa da improvvisi capogiri, svenimenti che le facevano perdere conoscenza. Quando arrivavano quelle crisi, doveva restare a letto anche per quattro cinque giorni di fila. Doveva essere trasportata a Cracovia, per essere assistita da medici specialisti. Le assenze duravano anche una settimana e allora era il marito a sbrigare le faccende domestiche, fare da mangiare, lavare i piatti, pulire la casa. I medici dicevano che aveva i reni compromessi e il cuore malandato. Doveva condurre un'esistenza tranquilla, serena, non doveva affaticarsi e neppure lontanamente pensare ad altre maternità. IL RIFIUTO DELL'ABORTO TERAPEUTICO Ma alla fine del 1919 si accorse di aspettare un nuovo bambino. Aveva già 35 anni e mezzo e la nuova gravidanza si annunciò subito difficile. I medici dissero che era pericolosa per lei e per il nascituro: doveva interromperla. Ma Emilia era una donna di fede. Con grande semplicità, si affidò al buon Dio. Mai avrebbe impedito a quel suo bambino di venire al mondo: per lui era disposta a morire. I nove mesi di gestazione furono pieni di complicazioni per la salute cagionevole di Emilia. Il parto, avvenuto il 18 maggio 1920, fu difficile. Il bambino però nacque sano e venne chiamato Karol, come il padre. Da quel momento l'esistenza di Emilia divenne precaria. I disturbi al cuore e ai reni peggiorarono, i gonfiori alle gambe le impedivano di restare a lungo in piedi. Doveva egualmente provvedere alla casa e ai figli. Si sacrificava in silenzio. «Sopportava il dolore con fede», raccontò la sua coetanea Maria Janina. «Non parlava mai dei suoi disturbi e riusciva sempre a tenere un sorriso dolce e sereno sulle labbra, anche nei momenti di maggior sofferenza». Il piccolo Karol crebbe sereno e vezzeggiato. Nel 1926 cominciò ad andare a scuola. Aveva difficoltà in matematica, ma con l'aiuto del fratello maggiore, che era già universitario, riuscì a superarle e divenne uno dei migliori allievi. Nell'inverno del 1928 le condizioni di salute di Emilia si aggravarono. Karol, che aveva compiuto otto anni, cominciò a capire e ad avere il terrore di perdere la mamma. Un suo insegnante di allora raccontò che il bambino era spesso pensieroso e assente. La mattina del 13 aprile 1929, Karol, dopo aver fatto colazione, era uscito presto come il solito per andare a scuola. Verso mezzogiorno arrivò nella sua classe il preside e disse all'insegnante che doveva parlare con il piccolo Wojtyla. Fuori dell'aula, Karol vide una vicina di casa. Capì che era accaduto qualcosa di grave alla sua mamma e scoppiò a piangere. La signora Emilia, infatti, era spirata poco dopo aver mandato a scuola il bambino. La salma esposta nella casa, i funerali, la sepoltura nel cimitero, impressionarono tremendamente il piccolo Karol. Quel lutto segnò la sua vita per sempre. Gli fece scoprire il dolore di perdere la persona più cara. Tutti gli amici di Karol Wojtyla sono concordi nel dire che egli rimase sconvolto dalla perdita della madre al punto di non riuscire quasi mai a parlare di lei. Solo una volta, al giornalista francese André Frossard, che era suo amico, confidò: «La morte di mia madre è sempre profondamente scolpita nella mia mente». Il suo amore tenero e vivo lo dimostrò tenendo sempre con sé alcuni oggetti che erano appartenuti a sua madre: un tavolino e la cesta di vimini che Emilia usava per raccogliere la biancheria. In seguito, quando Karol Wojtyla era anche diventato un famoso poeta, scrisse, in ricordo della madre questa poesia: «Sulla tua tomba bianca / Fioriscono bianchi fiori della vita. Oh, quanti anni sono stati senza di te, / Quanti anni fa? Sulla tua tomba bianca / Da tanti anni già chiusa: Come se in alto qualcosa si innalzasse, / Come la morte incomprensibile. Sulla tua tomba bianca, / O madre, mio spento amore, Con tanto affetto filiale / Faccio preghiera: Dio, donale eterno riposo». Versi densi di un tremendo dolore mai venuto meno.
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  • Il ruolo fondamentale delle sante madri dei santi

    14 NOV 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7600 IL RUOLO FONDAMENTALE DELLE SANTE MADRI PER LA SANTITA' DEI FIGLI di Antonio Tarallo Sul tema "mamma", la letteratura di ogni genere ed epoca è assai vasta: testi teatrali, poesie, racconti e romanzi. Per non parlare degli antichi adagi popolari che costituiscono una cultura millenaria. Più volte, nel nostro quotidiano, abbiamo sentito ripetere frasi come: "La mamma è sempre la mamma"; "di mamma ce n'è una sola" o ancora "chi dice mamma non s'inganna". E si potrebbe continuare ad libitum perché l'immaginario collettivo su questo tema così universale è davvero colmo di scene e sentimenti. Le madri sono, infatti, da sempre figure centrali per ognuno, per ogni vivente: si nasce da un grembo materno. E, prima di nascere, si è legati alla madre tramite il cordone ombelicale, unione vitale e spirituale con la propria mamma. E non è certo "un caso" se Dio stesso, per incarnarsi, ha pensato al grembo della Vergine Maria, la Mamma per eccellenza. Nella storia del cristianesimo, dunque, la figura della madre ha avuto un ruolo fondamentale fin dal principio. E lo sapevano bene quei santi che hanno avuto nelle madri testimoni importanti di fede. L'agiografia è colma di esempi di spose e madri che hanno trasmesso ai propri figli una fede salda, ben radicata in Dio, in Cristo, nella Madonna. Madri che per prime hanno trasmesso il messaggio del Vangelo ai figli, e questi, a loro volta, hanno così voluto intraprendere un cammino spirituale tutto particolare, speciale, fino a divenire santi. Così è accaduto a san Gregorio Magno, papa Gregorio I: la madre, santa Silvia (della quale oggi ricorre la memoria liturgica), secondo quanto lo stesso pontefice santo ha riferito nei suoi scritti, raggiunse il vertice della vita di preghiera e di penitenza, divenendo per lui una colonna della sua stessa fede. SANTA MONICA, MADRE DI SANT'AGOSTINO Altra figura centrale per la storia del cristianesimo è senza dubbio santa Monica, madre di sant'Agostino, dottore della Chiesa. Monica ha 22 anni quando nasce il primogenito Agostino, il futuro santo vescovo d'Ippona. Le vicende della sua biografia sono così strettamente legate a quelle del figlio che i due nomi si fondono, si confondono quasi, diventando un binomio inscindibile nella storia della Chiesa. Anche le loro memorie liturgiche si susseguono una dopo l'altra: Monica è celebrata il 27 agosto (sale al Cielo il 27 agosto 387); Agostino il 28 agosto (sale al Cielo il 28 agosto 430). Questa incredibile storia di madre e figlio è affascinante: quando Agostino si trasferisce per i suoi studi di retorica a Cartagine, si concede con sfrenata libertà ai piaceri della vita. La sua è una quotidianità fatta di piaceri smodati. Le sue Confessioni raccolgono diversi episodi riguardo a questo periodo. Monica, allora, cerca di riportarlo sulla retta via, ma niente da fare: Agostino, pur amando profondamente la madre, continua la sua vita smodata. Finiti gli studi, Agostino decide di spostarsi con la sua famiglia a Roma, capitale dell'impero. Monica, caparbia, decide di seguirlo, ma il figlio le sfugge. Ed è a questo punto della storia che avviene un fatto fondamentale: Monica trascorre una notte intera a pregare presso la tomba di san Cipriano. Sarà proprio la perseveranza della preghiera di santa Monica a convertire il figlio. Ma non sarà Roma la tappa decisiva della conversione, bensì Milano. Nella città lombarda, Agostino conosce sant'Ambrogio, vescovo di Milano. Monica comincia così a intravedere un po' di luce nella vita del figlio: è la Luce di Cristo che comincia a squarciare le tenebre del cuore del figlio dissoluto. Agostino verrà battezzato nel 387. Diventerà vescovo d'Ippona e sarà ricordato per la sua imponente e importante opera teologica. SANTA BRIGIDA E SANTA CATERINA DI SVEZIA Facciamo un salto nel Medioevo: in quest'epoca ci imbattiamo nella storia di santa Brigida e santa Caterina di Svezia, madre e figlia. Anno del Signore 1349: dalla fredda Svezia, Brigida, dopo la morte del nobile marito Ulf Gudmarsson, giunge a Roma. La seguirà la figlia, Caterina. Le due donne saranno da quel momento in poi sempre più unite nel Signore, nell'amore per i bisognosi. Abiteranno, fra preghiere e opere di carità, in Piazza Farnese. Qui si trova ancora oggi il palazzo dove avevano preso dimora: due stanze attigue, metafora della loro vicinanza spirituale. E proprio nel palazzo di Piazza Farnese - sede dell'Ordine del SS. Salvatore di Santa Brigida - è conservata una tela (vedi immagine in fondo) che può darci un'istantanea delle loro biografie: il quadro presenta santa Caterina mentre accompagna l'uscita del corpo di santa Brigida dalla chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna. Brigida era stata sepolta lì, prima di ritornare in patria: viene colta nel sonno della luminosa morte, mentre Caterina, mesta, con il capo reclinato e le mani giunte, prega il Signore mentre accompagna la madre nel suo ultimo viaggio. MARGHERITA OCCHIENA, MADRE DI SAN GIOVANNI BOSCO Anche il Novecento riesce a donarci bellissime storie di madri che con la loro testimonianza di fede hanno avuto una grande influenza sui propri figli. Basterebbe pensare alla venerabile Margherita Occhiena, madre di san Giovanni Bosco: sarà lei la guida per il figlio e per i primi ragazzi di Valdocco. Quando Giovanni confidò al parroco di sentir nascere in lui la vocazione religiosa, il sacerdote lo comunicò subito alla madre. Lei, allora, si rivolse al figlio con queste parole: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare e poi segui la tua vocazione senza guardar ad alcuno. La prima cosa è la salvezza della tua anima. [...] Non prenderti fastidio per me. Io da te voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se ti decidessi per lo stato di prete secolare, e per sventura diventassi ricco, io non verrò neppure a farti una sola visita, anzi non porrò mai piede in casa tua. Ricordalo bene». Passiamo dal Nord al Sud d'Italia. Un altro esempio di grande e genuina fede: è Maria Giuseppa Di Nunzio Forgione, madre di san Pio da Pietrelcina. La sua, una vita da terziaria francescana che sicuramente influì sul figlio Francesco (chiamato così in onore di san Francesco d'Assisi), il futuro santo cappuccino con le stimmate. Altra madre importante è la serva di Dio Emilia Kaczorowska, mamma di Karol Wojtyła, il futuro pontefice Giovanni Paolo II. Il ginecologo di fiducia aveva avvisato della pericolosità del parto di quel bambino e le aveva indicato di abortire. Ma Emilia era una donna di fede: affidò tutto a Dio e alla Madonna: quel bambino, che rischiava di non nascere, diventerà appunto san Giovanni Paolo II, colosso della fede e della Chiesa.
    8m 19s
  • San Michele è l'Arcangelo del purgatorio

    10 OCT 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7561 SAN MICHELE E' L'ARCANGELO DEL PURGATORIO L'arcangelo san Michele è considerato dai cristiani il più potente difensore del popolo di Dio. Nell'iconografia, sia orientale che occidentale, san Michele viene rappresentato come un combattente, con la spada o lancia nella mano e sotto i suoi piedi il dragone-satana, sconfitto nella battaglia. I credenti da secoli si affidano alla sua protezione qui sulla terra, ma anche particolarmente nel momento del giudizio, come recita un'antica invocazione: "San Michele arcangelo, difendici nel combattimento, affinché non periamo nel terribile giorno del giudizio." L'Arcangelo viene riconosciuto anche come guida delle anime al Cielo. Questa funzione di san Michele è evidenziata nella Liturgia romana in particolare nella preghiera all'Offertorio della Messa dei defunti: "Signore Gesù Cristo, libera le anime dei fedeli defunti dalle pene dell'inferno! San Michele, che porta i tuoi santi segni, le conduca alla luce santa che promettesti ad Abramo e alla sua discendenza." Egli compie dunque l'onorevole ufficio di presentare a Gesù Cristo, nostro giudice, le anime che muoiono in grazia di Dio. La Santa Chiesa prega anche san Michele, a nome di tutti i fedeli, di difenderci al momento della morte contro i demoni; di farci trionfare dei loro assalti e di custodirci contro ogni pericolo di perdizione. Questo ufficio attribuito a san Michele di proteggere i moribondi è un privilegio secolare e riconosciuto da tutti. San Tommaso, san Bellarmino, Suarez e sant'Alfonso de' Liguori dichiarano che san Michele ha dato a Dio il compito di presiedere alla morte dei cristiani; che egli libera i suoi devoti dalle astuzie del demonio e dona loro la pace e la gloria eterna. Tale è dunque il pensiero della Chiesa. La Tradizione attribuisce a san Michele anche il compito della pesatura delle anime dopo la morte. Perciò in alcune rappresentazioni iconografiche, oltre alla spada, l'Arcangelo porta in mano una bilancia. Felice dunque colui che ogni giorno avrà pregato san Michele. Nella sua ultima ora, quando dovrà vincere il supremo combattimento che decide per l'eternità, il potente Arcangelo l'assisterà. Esso stesso dichiarò che Satana non avrebbe avuto nessun potere sopra i suoi servi e i suoi protetti. Il fatto che la Chiesa lo preghi per i defunti, indica, secondo l'osservazione del Bossuet, la sua fede circa il ruolo di san Michele nei riguardi delle anime del Purgatorio. Nelle loro sofferenze purificatrici, queste anime hanno bisogno di consolazione. San Michele vi si impegna in modo particolare, egli è l'Arcangelo del Purgatorio. Il Principe della milizia celeste, dice sant'Anselmo, è onnipotente in Purgatorio, egli può dare sollievo alle anime che la giustizia e la santità dell'Altissimo trattengono in quella dimensione dell'aldilà. E' incontestabilmente riconosciuto fin dalla fondazione del Cristianesimo, diceva il cardinale san Roberto Bellarmino, che le anime dei defunti sono liberate dal Purgatorio per l'intercessione ed il ministero dell'arcangelo san Michele. Aggiungiamo a questo autorevole teologo anche l'opinione di sant'Alfonso: "San Michele - egli dice - è incaricato di consolare le anime del Purgatorio. Egli non cessa di assisterle e di soccorrerle, procurando loro molti sollievi nelle loro pene". Se dunque noi amiamo i nostri defunti, a loro intenzione dobbiamo pregare san Michele.
    4m 24s
  • Madre Teresa

    30 AUG 2023 · VIDEO: cartone animato su Madre Teresa ➜ https://www.youtube.com/watch?v=HXUI5yBvSdo TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4361 MADRE TERESA SARA' PROCLAMATA SANTA IL 4 SETTEMBRE di Rodolfo Casadei Oggi il Meeting di Rimini chiude i battenti con un attesissimo incontro su Madre Teresa di Calcutta, che verrà proclamata santa il 4 settembre prossimo, e fra i relatori non poteva mancare Brian Kolodiejchuk, il postulatore della causa di beatificazione e di quella di canonizzazione della suora albanese. Kolodiejchuk, canadese di origine ucraina e sacerdote dei padri missionari della Carità, ha frequentato madre Teresa per vent'anni, dal 1977 fino alla morte nel 1997, e oggi è il direttore del Mother Teresa Center. Oltre alla mostra rimasta esposta per tutta la settimana al Meeting, ha curato molti libri di scritti della fondatrice delle Missionarie della Carità, fra i quali Sii la mia luce, il libro che rivela la "notte dell'anima" che Teresa visse fino alla fine dei suoi giorni e che più oggi risulta utile per capire la natura della santità che la Chiesa ha riconosciuto e intende sottolineare celebrando la canonizzazione nel corso del Giubileo della misericordia. Padre Brian, lei ha detto e scritto che madre Teresa sarà la patrona di chi ha maggiormente bisogno della misericordia di Dio. Cosa intende dire? In una lettera pubblicata nel libro Sii la mia luce madre Teresa scrive: «Se mai diventerò una santa, sarò una santa dell'"oscurità". Sarò sempre assente dal Paradiso per accendere la luce di coloro che sono nell'oscurità sulla Terra». Questa è la missione di misericordia che si prefigge di svolgere dal Paradiso. Allo stesso tempo l'opera delle sue suore è essenzialmente opera di misericordia. Nell'ultimo libro tradotto in italiano, Il miracolo delle piccole cose, i quattordici capitoli mettono a fuoco le sette opere di misericordia corporale che madre Teresa e le sue suore hanno compiuto, e si tratta della documentazione ufficiale della causa di canonizzazione. Che avviene provvidenzialmente nell'anno del Giubileo della misericordia, per proporre la Madre come un modello di misericordia. Qual è la cosa che più ha fatto soffrire madre Teresa in vita? Vedere continuamente la sofferenza dei poveri. Nei suoi ultimi anni di vita ripeteva spesso: «Chi si prenderà cura dei poveri?». E non si riferiva a quelli di cui le Missionarie della Carità si prendevano cura, ma ai poveri di tutto il mondo in generale. Le dava sollievo il fatto che, grazie anche alle sue iniziative, il mondo era diventato più cosciente della condizione dei poveri. Ha accettato di ricevere più di 200 premi, oltre al premio Nobel, nel corso della sua vita, in nome dei poveri e del fatto che attraverso di lei il mondo prendeva coscienza di loro. Cosa pensava madre Teresa delle critiche che le facevano persone come Christopher Hitchens, di chi la accusava di fare assistenzialismo senza affrontare le cause della miseria? Alcuni fatti che Hitchens ha riportato nel suo libro non erano precisi, come quando ha accusato madre Teresa di aver reso omaggio alla tomba del dittatore Enver Hoxha a Tirana: lei è stata portata lì come le autorità facevano con tutti i visitatori stranieri, la sua intenzione era quella di pregare sulla tomba dei suoi genitori in Albania. L'ha criticata per essersi limitata a creare una casa per i moribondi a Calcutta, quando avrebbe potuto finanziare una clinica di prim'ordine per loro. Ma quella casa era stata creata proprio per i moribondi, per persone abbandonate e senza speranza di guarigione, affinché potessero morire nella dignità. Tutti sanno la storia di quell'uomo che disse: «Ho vissuto tutta la vita come un animale, ma ora muoio come un angelo». Doveva essere un luogo dove si realizzava un incontro personale profondo fra chi accudiva il morente e il morente stesso. Ho invitato Hitchens a rendere la sua testimonianza durante il processo di beatificazione, e lui ha ammesso che la sua antipatia per madre Teresa è nata quando, nella seconda parte della sua visita alle opere delle missionarie della Carità a Calcutta, caduto il discorso sulla questione dell'aborto lei gli disse che la soluzione per le donne che volevano abortire era che partorissero e dessero il figlio in adozione. [leggi MADRE TERESA: IL PIU' GRANDE DISTRUTTORE DELLA PACE E' L'ABORTO, clicca qui, N.d.BB] Riguardo alle critiche sul fatto che lei non si occupava delle cause della miseria, la Madre ha sempre risposto che la sua missione era quella di prendersi cura dei bisogni del sofferente qui ed ora, ad altri era data quella di occuparsi della rimozione delle cause, appoggiandosi sulla dottrina sociale della Chiesa. [leggi MADRE TERESA: PORTAVA AI POVERI SIA IL PANE CHE CRISTO (NO ALL'UMANITARISMO RELATIVISTA), clicca qui, N.d.BB] Quali sono stati il santo e la santa preferiti di madre Teresa? La santa è Teresina di Lisieux, che era stata canonizzata e poi proclamata co-patrona delle missioni insieme a san Francesco Saverio proprio negli anni della formazione e dei primi voti di madre Teresa. La colpiva tantissimo la «via dell'infanzia spirituale» di Teresina, che consiste nella fiducia e nell'abbandono nelle braccia di Gesù perché lui operi in noi quando a noi è impossibile operare. Teresa tradurrà in inglese "confiance et abandon" con "trust and surrender". Fra i santi amava molto san Francesco: era l'unica immaginetta dentro al suo libro di preghiere. E sant'Ignazio di Loyola, al quale si ispirava il primo ordine religioso a cui si consacrò, quello delle suore di Loreto. Quale era la sua preghiera preferita? Era il Memorare, la preghiera di intercessione alla Vergine Maria attribuita a san Bernardo di Chiaravalle. Ne aveva fatto una novena, che chiamava la "novena volante", nella quale si ripeteva per nove volte di seguito la preghiera ogni giorno per nove giorni. Ricordo il caso di una suora che non riusciva ad avere il visto per l'allora Ddr (la Germania comunista): lei e altre suore pregarono e già dopo il primo giorno il visto arrivò. E quella non è stata l'unica grazia ottenuta attraverso la novena volante. Aveva pratiche ascetiche particolari? Solo il digiuno in concomitanza del pranzo del primo venerdì del mese. Il corrispettivo del pranzo saltato andava in un fondo speciale a cui si faceva ricorso per le richieste di aiuto impreviste. Non era attratta da pratiche ascetiche straordinarie, anche nella vita ascetica applicava il suo motto generale: "fare le cose ordinarie con un amore straordinario". Quali persone ha sentito maggiormente amiche nel corso della sua esistenza? Anzitutto Jacqueline De Decker, una donna belga che voleva diventare missionaria della carità, ma a causa di un grave problema di salute è dovuta tornare in Belgio. Madre Teresa le ha chiesto di essere il suo braccio destro spirituale, di fondare i Cooperanti sofferenti delle missionarie della Carità, che offrivano le loro sofferenze per donare alle suore la forza di compiere la loro opera di misericordia. Poi Anne Blaikie, che condusse con lei la campagna "tocca un lebbroso con la tua compassione" a Calcutta e poi fondò gli Youth Co-workers, giovani che collaborano le Missionarie della Carità. Infine Kathryn Spink, figlia di diplomatici britannici e scrittrice di successo: madre Teresa si fidò tanto di lei da farne la sua biografa autorizzata. Si è molto parlato della "notte dell'anima" che scese su madre Teresa a un certo momento. Come attraversò quel tempo e come ne uscì? Non è uscita dall'oscurità per il resto della sua vita. Di solito nella vita dei mistici la notte dell'anima è un passaggio verso l'unione mistica con Cristo. In madre Teresa la cosa è diversa. Lei afferma di avere provato la dolcezza dell'unione della sua anima con Cristo fra il 10 settembre 1946, il giorno in cui si manifesta in lei l'ispirazione per quella che sarà la sua opera, e la metà del 1947, quando comincia a visitare gli slum di Calcutta. In quel momento la dolcezza svanisce e non torna più. Questa seconda esperienza di oscurità, dopo che era avvenuta l'unione mistica con Cristo, la definirei un'oscurità apostolica, missionaria. Lei capisce che la povertà più grande dell'uomo non è quella materiale, ma il sentirsi non amati, abbandonati, soli, ed è ciò che lei stessa sperimenta nel rapporto con Cristo: ha il sentimento che Gesù non la ama e che lei non riesce ad amare Gesù come vorrebbe. Diceva: «Lo stato della mia anima è come quello dei poveri che vivono per strada». Paradossalmente questa aridità del rapporto con Cristo l'ha unita maggiormente a lui e ai poveri. A lui perché ha condiviso con lui l'esperienza della solitudine nell'orto del Getsemani e dell'abbandono da parte di Dio sulla croce, quando Gesù dice: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?". E con i poveri perché è diventata come loro non solo nello stile povero di vita, ma nel condividere il loro senso di abbandono, di solitudine, di assenza dell'amore.
    11m 19s
  • San Giovanni da Capestrano, patrono dei cappellani militari

    22 AUG 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7502 SAN GIOVANNI DA CAPESTRANO, PATRONO DEI CAPPELLANI MILITARI di Don Mario Scudu Non si può certo dire che fu un uomo tutto casa e chiesa, o meglio, visto che era un frate, tutto convento e cappella. Ha avuto una vita movimentata, molto varia e ricca di esperienze. Ha girato prima l'Italia e poi l'Europa, ma non per turismo religioso o per convegni di aggiornamento con soggiorno in alberghi a varie stelle... ma per predicare. E non dimentichiamo che, nel Quattrocento, lo stesso "viaggiare" era sinonimo di fatica, dormire poco, soffrire la fame e la sete con pericoli vari e imprevedibili: ogni giorno una buona dose di disagio di vario genere con avventure non sempre a lieto fine. Nel 1453 era caduta la città di Costantinopoli, la capitale dell'Impero Romano d'Oriente. L'impressione fu enorme. Il senso della minaccia sulla cristianità europea era tangibile e incombente. La paura e l'angoscia erano tornate prepotenti e si facevano sentire con forza su larghi strati della popolazione. Anche se non su tutti. Davanti ad ogni avvenimento doloroso c'è sempre un certo numero di apatici, che sono poi quelli dagli ideali ristretti e dagli orizzonti che coincidono esattamente con il proprio benessere e tornaconto. Fu così anche allora. Il nuovo pericolo che minacciava l'Europa era costituito dall'avanzata sanguinaria e apparentemente inarrestabile dell'Islam e dei Turchi. Furono i papi Niccolò V e poi il successore Callisto III che organizzarono una crociata in difesa della fede cristiana e dell'Occidente intero minacciati dal pericolo ottomano-islamico. Ma sul campo è stato Giovanni da Capestrano, un umile frate, a raccogliere la sfida e darsi da fare, con la predicazione, per reclutare uomini. Purtroppo solo gli Ungheresi, i più direttamente minacciati, risposero al suo appello. Con un esercito di quasi 5.000 uomini si mise in cammino verso Belgrado, fortezza che era stata chiusa in una tenaglia dalle truppe di Maometto II e dalla flotta turca. Fu dapprima un comandante ungherese, lo Hunyadi, dietro suo impulso a rompere l'assedio navale con un attacco che riportò pieno successo il 14 luglio 1456. Una settimana dopo arrivò anche la vittoria terrestre. E questa ebbe come protagonista assoluto Giovanni da Capestrano che guidò l'attacco. Un frate trasformatosi in generale vittorioso. Fu questa azione a difesa dell'Occidente che gli meritò in seguito l'appellativo di "Apostolo dell'Europa Unita". Ma gli costò anche la vita. Contrasse infatti la peste e ne morì tre mesi dopo nel convento di Ilok, in Croazia. Era il 1456. Anno della Battaglia di Belgrado dell'Europa contro i Turchi, come viene indicato nei libri di storia. GIOVANNI: INQUISITORE E PREDICATORE IN ITALIA Giovanni nacque il 24 giugno 1386 a Capestrano non lontano da L'Aquila, nell'Abruzzo. I suoi genitori erano di nobili origini. La prima istruzione l'ebbe in famiglia da uno speciale pedagogo. E ancora adolescente conobbe il dolore: subì infatti, per rappresaglia, l'uccisione di ben dodici persone del parentado e la distruzione della stessa casa. Giovanni studiò diritto canonico e diritto civile a Perugia. Diventò anche giudice di questa città facendosi notare e ricordare per la sua integrità morale e imparzialità. Stava per far rientro in paese per guadagnare un po' di denaro e così autofinanziarsi gli studi per la promozione al dottorato, quando, nel 1415 in seguito ad un conflitto tra Perugia e Rimini, cadde prigioniero. Come sarà alcuni secoli dopo per Sant'Ignazio di Loyola che si convertì durante la prigionia, così fu per Giovanni da Capestrano (cf box a pag. 18). Alcuni anni dopo entrò tra i francescani osservanti, divenendo sacerdote nel 1417. La sua vita si può dividere in due grandi periodi. Il primo comprende la sua attività in Italia fino al 1451; il secondo la sua predicazione nell'Europa centrale e la partecipazione alla battaglia di Belgrado, e la morte (1456). Nel primo periodo furono tre i principali interessi di Giovanni: la predicazione, la difesa della ortodossia cattolica e la riforma dei frati minori. A partire dal 1422 cominciò a predicare a L'Aquila davanti a grandi folle, che rimanevano estasiate alle sue parole e al suo entusiasmo. Folle enormi lo seguiranno anche a Roma, Siena, Perugia, Milano, Padova, Vicenza, Venezia e altre città. Fece anche alcune puntate in Spagna e in Terra Santa. La sua predicazione, specialmente durante l'Avvento e la Quaresima, fu un grande aiuto per il rinnovamento spirituale e dottrinale delle popolazioni italiane del tempo. Diventato un predicatore famoso, Giovanni ne conobbe un altro grandissimo, Bernardino di Siena, di cui divenne amico (e difensore quando venne accusato di idolatria). Fu quest'ultimo a comunicargli la devozione al nome di Gesù (condensato nelle famose tre lettere IHS che significavano Jesus Hominum Salvator, Gesù Salvatore degli uomini). Per le sue conoscenze del diritto Giovanni veniva anche chiamato dai papi come paciere e come diplomatico incaricato di delicate missioni. Venne nominato in seguito inquisitore dei Fraticelli e chiamato così a combattere il fraticellismo: una setta che pretendeva di praticare "alla lettera e senza glosse" la regola di San Francesco, professando diverse dottrine dichiarate eretiche dalla Chiesa. Proprio per il successo che ebbe come riformatore dell'ordine francescano si meritò l'appellativo di "Colonna dell'Osservanza". Altro incarico che svolge con molto zelo e efficienza, anche senza i risultati desiderati, fu la sua attività di inquisitore degli Ebrei (1427) o meglio la sua battaglia contro l'usura, grandemente ed efficientemente praticata da questi, che ha poi lasciato su di loro lungo i secoli seguenti una fama poco bella. Giovanni si era adoperato presso papi, principi e governatori di città, e specialmente presso la regina Giovanna di Napoli, per far applicare le leggi contro l'usura in generale e contro gli Ebrei in modo particolare, cercando di costringere questi ultimi ad osservare le disposizione del diritto ecclesiastico e civile del Regno. Non ebbe grande successo anche perché non godette degli appoggi importanti su cui lui contava. UN PREDICATORE PER L'EUROPA Dal 1451 al 1456 abbiamo il secondo periodo della vita di Giovanni quello propriamente "europeo". Su istanza di papa Niccolò V egli partì per l'Austria insieme a dodici compagni (tra i quali uno dei suoi biografi, un certo Nicola della Fara). Fu lo stesso imperatore Federico III a richiedere la sua presenza come predicatore (predicò in Baviera, nella Turingia, nella Sassonia, Slesia ed in Polonia, parlando in latino e aiutato da un interprete), come riformatore dei frati conventuali, come inquisitore degli Ebrei e anche per cercare di riconvertire gli hussiti di Boemia. Questi erano i seguaci del riformatore Jan Hus, arso come eretico nel 1415. [...] Ma questo punto nel programma di Giovanni diventava secondario rispetto al pericolo incombente posto dall'Islam che avanzava insieme ai Turchi. Si dedicò completamente a questo obiettivo fino alla morte. Che messaggio ci lascia Giovanni da Capestrano? Anzitutto la sua totale dedizione per la causa del Vangelo, attraverso la predicazione in Italia e nell'Europa centrale contrastando le eresie del tempo. Egli "può restare come esempio di un uomo che, in quello scorcio finale del Medio Evo, seppe capire problemi e aspirazioni, angosce e attese del suo uditorio, e cercò di ripresentare il Vangelo in quella situazione... Un messaggio ... resta per i predicatori di tutti i tempi, quello di farsi ricercatori e annunciatori del senso attuale che deve avere la rivelazione divina per ogni generazione e cultura" (A. Pompei). Giovanni da Capestrano ha lasciato una profonda impressione nella Chiesa del Quattrocento, per la sua predicazione travolgente e convincente (e le sue prediche non erano propriamente uno show: duravano infatti dalle due alle tre ore, con qualche eccezione... ancora più a lungo). Fu un uomo di successo apostolico per le conversioni spettacolari operate, per i suoi poteri taumaturgici che esercitava per la povera gente, e non ultimo anche per la sua multiforme santità. "Giovanni appare come un discepolo di Cristo, del quale segue l'esempio per quanto la sua condizione umana glielo consente. L'imitazione di Cristo è dunque primordiale ed il modello evangelico guida la vita di Giovanni. La profonda pietà e la grandissima umiltà del santo colpirono i suoi contemporanei; egli si imponeva prove umilianti, come attraversare la città di Perugia, della quale fu giudice, malvestito e in groppa ad un asinello. Il suo amore per la pace, legato ad un innato senso della giustizia ed una ardente carità nei confronti del prossimo, lo pongono nella categoria dei santi. La sua vita è condotta nel segno dell'austerità: accatta il suo pane, porta quotidianamente il cilicio, digiuna tutti i giorni in eguale misura" (da Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. I). Un santo ancora oggi, per molti aspetti, significativo.
    11m 40s
Vite straordinarie di persone normali che hanno scelto di vivere la vita di tutti i giorni secondo gli insegnamenti del Vangelo
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