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Letteratura italiana contemporanea

  • 11s
  • L'ultimo arrivato - 01

    5 APR 2016 · Uno Prima di chiamarmi pelleossa mi chiamavano strillone, i bambini della scuola elementare di via dei Ginepri. Me li ricordo ancora tutti e trentaquattro, anche se la faccia che più mi è rimasta in testa è quella di Peppino, con quei capelli dritti da dita nella corrente. Insieme ci divertivamo a fottere la merenda di pane e mortadella a Ettore Ragusa, il figlio del macellaio. Quando se ne accorgeva tirava uno strillo più acuto dei miei e frignava a fontana. Io e Peppino, allora, andavamo lì con la bocca ancora bisunta e facevamo i dispiaciuti, «ma no, Toruccio... ma che si piange per fatti così piccoli?», «morto un panino se ne fa un altro, su!», queste frasi di consolazione gli dicevamo. Ogni tanto mi sentivo in colpa e chiedevo a Peppino se non stavamo esagerando. «Ma quale esagerazione! Quel cornuto è più largo che lungo e a casa trova tutti i giorni la pastasciutta. Tu che trovi?». «Acciughe» rispondevo io. Fino a nove anni ho vissuto di acciughe. Anzi, di un'acciuga al giorno. Me la rifilava mamma mia al mattino prendendola da un barattolo col sale rancido attaccato al vetro. La stiracchiava su una fetta di pane che lei chiamava «pane in cassetta» e mi diceva di stare alla larga dalla cucina fino a sera. «Smammare» ripeteva con un gesto da generale. Dopo un paio d'ore tendevo l'orecchio sulla pancia perché sentivo che da lì dentro uscivano rumori strani. Sgorghi, ragli, risucchi, non saprei come chiamarli. Così se qualcuno con le mie stesse calorie in corpo mi proponeva di andare a rubare, io subito ci stavo. Più facile era sgraffignare frutta dalle cassette di legno che le vecchie tenevano sulla soglia. Peppino distraeva la vecchia e io ficcavo pesche sotto la maglietta o nelle mutande. Complicato andare a rubare nelle case di un paio di paesani senza più cervello al seguito. Io di solito, visto che avevo una parlantina affilata, facevo da palo e Peppino, o Ciccillo o Berto o qualche altro affamato, mi passavano dietro la schiena per rovistare a casaccio dentro qualunque tiretto. A volte si usciva con un bottino niente male, ma nella maggior parte dei casi si raggranellavano cose da niente. Tozzi di pane, torroncini, qualche uovo da sucare. Difficile, infine, rubare nell'alimentari di Turuzzu, sia perché quel negozio era fetente e uno se ne voleva scappare prima ancora di metterci piede, sia perché Turuzzu era svelto e se ti beccava menava calci. Per arrischiarsi da lui bisognava avere nel sangue la pressione delle lucertole, altrimenti conveniva evitare. Nel tempo, però, ho realizzato che a San Cono in tanti seguivamo la stessa dieta e allora mi sono messo l'anima in pace. Tutti, presto o tardi, ci siamo messi l'anima in pace. Un'acciuga? E un'acciuga sia! Da picciriddi non ci si demoralizza mica così. Certo, finché andavo a scuola era un discorso. Stavo seduto al banco l'intera mattina, ascoltavo il maestro Vincenzo e la storia finiva li. Ma quando a mamma mia la notte del 10 ottobre 1959 venne il colpo apoplettico e rimase menomata per sempre, beh, non fu proprio la stessa cosa perché dovetti ritirarmi da scuola e filare in campagna con mio padre a fare lo jurnataru. Dopo Peppino, anche se non gliel'ho mai detto, la persona a cui volevo più bene era il maestro Vincenzo. Ero più affezionato a lui che a mio padre Rosario. Non solo perché non era noioso e non menava mazzate quando rientravo a casa con la giubba strappata o le ginocchia sbucciate, ma per le poesie che ci leggeva. Di Giovanni Pascoli specialmente. Non metteva mai fretta di capirle. Era prima di tutto una questione di musica. «Al senso ci penseremo dopo!» ripeteva quando noi bambocci facevamo certe facce da incomprensione. Dopo aver recitato marciando tra i banchi ordinava di trascrivere la poesia sul quaderno perché «ricopiare vuol dire imparare!», diceva col bastone in aria per farci stare muti. Il maestro Vincenzo era come un amico per me, non ci sono storie. Basta dire che ci vedevamo pure fuori scuola. Anzi, il sottoscritto era la prima persona che incontrava, visto che eravamo dirimpettai. L'appuntamento era all'angolo di via Archimede, alle sette e mezza. Io quando lo vedevo in lontananza sbattevo le mani sulle gambe per scuotere i peli del micio e correvo verso di lui. Gli dicevo subito che la versione in prosa non l'avevo fatta perché trasformare una poesia mi pareva una brutta operazione. Il maestro non ribatteva, mi domandava soltanto se l'avevo imparata. «Sicuro che l'ho imparata! Volete che ve la ripeto?». «Non adesso». «E mi metterete il brutto voto?». «Se non l'hai imparata sì». Ma quale brutto voto, io le poesie le sapevo tutte quante a menadito e pigliavo sempre Lodevole! Quando tornavo a casa sventagliavo in aria il quaderno per mostrare la sua scritta in penna rossa e reclamavo in premio un pezzo di cioccolata o il corrispettivo di piccioli per andarmela a comprare. Tutto questo, l'ho già detto, fino al 10 ottobre 1959, perché dopo non ci fu da reclamare più niente. Superata l'edicola di Rocco, il maestro si faceva guidare da me. Una volta comprata l'Unità non parlava più e camminava senza guardare. Allora, siccome al passaggio a livello di San Cono c'era già scappato il morto, gli prendevo il braccio come si fa coi ciechi. Quando era successo il fatto del morto ammazzato sotto il treno, il maestro aveva detto che dovevamo dispiacerci anche se non lo conoscevamo e sapevamo soltanto che la locomotiva lo aveva sbattuto lontano, lui, la bicicletta e il sacco di arance attaccato al manubrio. «Chi non si dispiace della morte di una persona è barbaro» disse in classe, e quando passò il carro funebre ci ordinò di interrompere il dettato per andare alla finestra a recitare una preghiera. Il maestro fu il primo a cui raccontai del colpo apoplettico di mamma mia. Quel mattino ero rimasto muto e non gli avevo manco pigliato il braccio al passaggio a livello. Quando finalmente mi guardò interrogativo, gli raccontai che era caduta per terra nel cuore della notte, una macchia di sangue nero gli si era formata sulla tempia e non se ne andava. Il maestro allora fermò il passo, ingoiò la saliva a fatica e mi disse tante cose importanti. Che però non mi ricordo più.
    8m 37s
  • La frontiera - Prologo

    5 APR 2016 · Prologo Il sommozzatore si cala in fondo al mare, si tira giù con l'aiuto di una corda, sembra una pertica conficcata sul fondale. L'uomo pare danzare, la tuta nera è avvolta da scie di bollicine. A tratti si sente il rumore dell'aria sputata fuori. Al primo sommozzatore se ne aggiunge un altro, poi un altro ancora. Tutti hanno scritto sul braccio destro GUARDIA COSTIERA. Dopo alcuni secondi circondano il relitto. Adagiato a quaranta metri di profondità, al largo dell'isola di Lampedusa, il peschereccio sembra in secca, incuneato nella sabbia chiarissima del fondale. I tre sub, le bombole sulle spalle, calcano il ponte della piccola imbarcazione ed entrano da una porta laterale. Passa qualche secondo, ed estraggono il corpo di una donna. Assomiglia a una bambola gonfiabile per la lievità con cui, sul fondo del Mediterraneo, scivola fra le loro mani. La donna è di spalle, il corpo è fasciato da pantaloni scuri e una maglietta. All'estremità spuntano le braccia e i piedi neri. I capelli lunghi e crespi sono raccolti in una coda. La donna viene spostata e adagiata pochi metri più in là, in un angolo del ponte. Poi entrano nella cabina accanto. Sui letti ci sono due corpi. Un altro è ritto, a testa in giù. La maglietta si muove, a tratti scopre la pancia snella, irrigidita. Nella terza cabina c'è un uomo seduto, la bocca aperta e il corpo immobile, il taglio degli occhi sottile, le mani su un tavolino, come se fosse lì ad aspettare da mesi quell'incontro. È un lavoro lentissimo. I sommozzatori tirano fuori i corpi di un ragazzo e una ragazza, poi quello di un'altra ragazza, dalle strette cabine in cui, anche se tutto è sottosopra, regna una strana calma. Il silenzio assoluto rallenta ogni gesto. Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero. Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei vestiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso. Sono tutti neri, tutti giovani. I sommozzatori continuano la loro operazione come se l'acqua non ci fosse. Come se attraversassero un paesaggio lunare. I corpi adagiati sulla superficie piana della sabbia paiono stesi sulla nuda terra. Che siano schiacciati dalla pressione o tenuti sul fondo dall'acqua che ha fatto scoppiare i polmoni, nessuno si alza dal suolo o fluttua. Sono raccolti in gruppi. Attendono pazienti, inerti, mentre i sub continuano a danzare intorno al peschereccio. Uno alla volta, vengono imbracati e portati su. A bordo del battello della Guardia costiera c'è un viavai di gente. Gambe che si muovono, piedi che scattano, mentre gli uomini avvolti nella tuta si alzano dal mare. Tra le onde, in uno spicchio blu scuro davanti al battello, alcuni corpi galleggiano gonfi, le gambe divaricate, in un mucchio indistinto di colori. Nel trambusto generale, il corpo di un bambino viene adagiato sulle assi di legno del ponte. Avrà un anno, un anno e mezzo al massimo, la maglietta rossa, i capelli arruffati, le guance paffute. L'acqua defluisce dalle membra. La testa poggia su un lato, sotto il sole. Inerme.
    5m 11s
Autori italiani della modernità
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Author Emiliano Colella
Categories Books
Website emiliancole.tk
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