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Famiglia e matrimonio - BastaBugie.it

  • La famiglia non può essere modificata dalle leggi

    24 APR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7774 LA FAMIGLIA NON PUO' ESSERE MODIFICATA DALLE LEGGI di Gianfranco Amato La famiglia è una creazione dell'uomo o un elemento di natura? La risposta è semplice. La famiglia non è il frutto di un sistema socio-giuridico, di un determinato contesto storico-culturale, di una moda, di una concezione filosofica o politica, né tanto meno è il frutto di una dottrina religiosa. La famiglia è un elemento oggettivo di natura che precede cronologicamente e ontologicamente qualunque istituzione umana. Per questo essa è sottratta alla disponibilità dello Stato e non può essere modificata o manipolata attraverso la funzione legislativa. Per questo si dice che la famiglia è un elemento pre-giuridico e pre-politico. Fa parte della struttura naturale dell'essere umano. La prima immagine che abbiamo di famiglia - senza aggettivi di sorta come "naturale", "tradizionale", ecc. - risale al periodo preistorico, al Neolitico superiore in particolare. Nel 2005 in Germania, vicino alla città di Eulau, gli archeologi hanno rinvenuto alcune tombe che appartenevano a quell'epoca. In una di queste tombe hanno ritrovato i resti di quattro esseri umani: un uomo, una donna e due bambini. Furono seppelliti abbracciati tra di loro. Attraverso l'analisi del Dna gli scienziati hanno scoperto che si trattava di una famiglia: madre, padre e due figli. L'immagine che è stata ricostruita di questa famiglia, oltre ad essere particolarmente commovente, ci dice una cosa importante: in quell'epoca non esisteva nessuna legge, non esisteva nessun parlamento, non esisteva lo Stato e non esisteva nessuna Chiesa, ma esisteva la famiglia, elemento naturale che precede tutte queste istituzioni. L'UOMO LASCERÀ SUO PADRE E SUA MADRE La nostra civiltà occidentale affonda le sue radici, oltre che nella preistoria, anche nella cultura giudaica, che nel Bereshit (בראשית), il primo libro della Torah, definisce la famiglia in questi termini: «L'uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla moglie e i due formeranno una sola carne». La nostra civiltà si radica anche nella cultura classica greco-romana. Aristotele, che rappresenta la massima espressione del pensiero filosofico greco, ci ha lasciato una definizione interessante: «Polis sùnkeitai ex oikiòn», ossia «La società è costituita dall'insieme delle famiglie» (Politica, I, 1253b). Non sono i singoli individui ma le famiglie a costituire la società. E Aristotele aveva ben in mente quali fossero le funzioni e le caratteristiche della oikos, intesa come famiglia. Cinque, in particolare. La prima caratteristica era quella della despotèia, ovvero dell'autorità indiscussa: la famiglia è una comunità dove i genitori comandano e i figli obbediscono. La seconda caratteristica era quella di nascere dalla sùnzeuxis gunaikòs kai andròs γυναικός καί ἀνδρός, ovvero dall'unione di un uomo e di una donna. La terza caratteristica era legata a una funzione essenziale della famiglia, ovvero la teknopoìia, la procreazione. La quarta caratteristica era connessa alla oikonomìa, in quanto la famiglia è una comunità che si amministra e si gestisce in maniera razionale: il termine economia, peraltro, deriva proprio da «οἶκος», famiglia. La quinta caratteristica risiede in un'altra funzione fondamentale, ovvero quella della «παιδεία», l'educazione: la famiglia è la prima e più importante agenzia educativa della società. IL PENSIERO GIURIDICO DEI ROMANI Dopo il pensiero filosofico dei greci arriva il pensiero giuridico dei romani. Ulpiniano, uno dei più grandi giuristi dell'antica Roma, sosteneva che la famiglia si fonda sull'unico matrimonio, quello «justum», ovvero il matrimonio tra un «masculus pubes» e una «femina potens». Prima di lui il grande Cicerone aveva spiegato che la famiglia è la «prima societas», il nucleo, la cellula della società (De Officiis, I, 53-54). Essa costituisce, infatti, il fondamento della stessa società («principium urbis») e il suo vivaio («seminarium rei publicae»). Perché i romani sostenevano che la famiglia fosse un "vivaio"? Perché per essi la famiglia costituiva il primo luogo dove il cucciolo d'uomo impara a convivere con persone che non si è scelto; impara che esistono delle regole da rispettare; impara cosa significa condividere. Era una specie di filtro, di "stage" che il cucciolo d'uomo doveva affrontare prima di andare a vivere nella grande famiglia che è la società. I romani pensavano che se la natura non avesse donato questa possibilità di una sperimentazione quotidianamente della convivenza in famiglia, gli stessi uomini non avrebbero potuto vivere insieme nella società: sarebbero stati dei lupi solitari o si sarebbero scannati tra di loro. Ma poiché nella grande famiglia dove il cucciolo d'uomo andrà a vivere, cioè la società, ci sono uomini e donne, era importante per i romani che il bambino imparasse nella sua famiglia quali fossero le funzioni di questi due sessi. Ecco perché, per esempio, nonostante nell'antichità classica l'omosessualità fosse abbastanza tollerata e diffusa, nessuno si è mai sognato di parlare di matrimonio omosessuale o di famiglia tra persone dello stesso sesso. E perché non lo fecero malgrado allora ci fossero maggiori condizioni per farlo rispetto a oggi? Perché i romani avevano un senso chiaro e intelligente della laicità e sapevano distinguere tra l'aspetto privato - per cui uno a casa sua, sotto le lenzuola, può fare quello che più gli aggrada - e l'aspetto pubblico, ovvero ciò che può avere effetti negativi nella convivenza civile e nella società. Ora, se la famiglia, come abbiamo visto, è un elemento pre-giuridico e pre-politico, ossia non ha nulla a che vedere con il diritto, la legge, il parlamento, quando e perché i documenti giuridici in Europa si occupano di essa? Esiste una data e una ragione. Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, l'esperienza mostrò al mondo che l'unica cosa che seppe resistere e tenere insieme la società durante quello tsunami devastante fu proprio la famiglia. E il mondo comprese che, per ricostruire la stessa società dalle ceneri di quel devastante evento bellico, occorreva ripartire dalla famiglia. Per questo la Costituzione italiana del 1948, la Costituzione tedesca del 1948 e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 riconobbero l'importanza della famiglia fino ad allora sottovalutata. LA FAMIGLIA È IL NUCLEO DELLA SOCIETÀ L'art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, infatti, stabilisce che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto a essere protetta dalla società e dallo Stato». E la Costituzione italiana all'art. 29 usa un verbo interessante quando afferma che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». "Riconosce" significa prendere atto di qualcosa che preesiste. L'articolo non afferma che la Repubblica istituisce la famiglia e ne disciplina le modalità di costituzione e di estinzione. Non è una creazione dello Stato. Per comprendere esattamente il significato attribuito dai costituenti all'espressione « società naturale», è sufficiente leggere il dibattito sul tema che emerge dai verbali dei lavori preparatori della stessa Costituzione. Si possono citare, ad esempio, tre significativi interventi: le dichiarazioni di voto degli onorevoli Moro, La Pira e Mortati. Il primo affermò quanto segue: «Dichiarando che la famiglia è una società naturale si intende stabilire che la famiglia ha una sua sfera di ordinamento autonomo nei confronti dello Stato, il quale, quando interviene, si trova di fronte a una realtà che non può menomare né mutare». Il secondo, La Pira, precisò che «con l'espressione società naturale si intende un ordinamento di diritto naturale che esige una costituzione e una finalità secondo il tipo della organizzazione familiare». Il terzo, Mortati, volle precisare il carattere normativo della definizione di famiglia come società naturale, dichiarando che «con essa si vuole, infatti, assegnare all'istituto familiare una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione». Poche furono le voci critiche rispetto a quella formula, e solo perché le attribuirono una portata meramente definitoria. L'on. Ruggiero, per esempio, rilevò che la Costituzione non doveva dare definizioni degli istituti, e che il progetto non ne dava alcuna, tranne che per la famiglia. Nel suo ragionamento fu interrotto dall'on. Moro, che lo fulminò con queste parole: «Non è una definizione, è una determinazione di limiti». Con quelle tre parole, espressione dell'indiscutibile intelligenza di un uomo come Aldo Moro, in maniera sintetica ed efficace fu riprodotto il pensiero della maggioranza dell'Assemblea, che volle infatti mantenere la formula «società naturale». DESTRUTTURARE LA FAMIGLIA Ora si pone il tema del perché si voglia far prevalere l'idea che la famiglia non rappresenti un elemento di natura, bensì una variabile socio-culturale soggetta al cambiamento anche attraverso la funzione legislativa. Io credo - e questa rappresenta una mia convinta opinione - che oggi questa tendenza a destrutturare la famiglia ubbidisca a una precisa logica di potere. Sembra di vivere la profezia distopica del grande scrittore inglese Aldous Huxley nella sua opera Il Nuovo Mondo, che identificava proprio nell'eliminazione della famiglia e nell'abolizione delle parole "padre" e "madre" uno dei passaggi fondamentali per il raggiungimento del dominio assoluto da parte di poteri oligarchici. Del resto, la famiglia rappresenta l'ultimo, picco
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  • Dieci motivi per cui amo essere un maschio

    17 APR 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=3217 DIECI MOTIVI PER CUI AMO ESSERE UN MASCHIO di don Fabio Bartoli "Tu non mi capisci!" Di solito nelle liti di coppia questo è il rimprovero finale, quello che pone termine ad ogni discussione. Normalmente è la donna a dirlo all'uomo. Ed è giusto, perché l'uomo ha il compito istituzionale, assegnatogli dalla natura, di capirla. La donna accoglie senza capire, lei non ne ha bisogno, intuisce. L'uomo invece deve capire, perché deve servire. E per servire, diversamente che per accogliere, è necessario interpretare i gusti e i desideri dell'altro, prevenirli se possibile. Posso accoglierti in silenzio, ma non potrò mai servirti in silenzio. A volte parlerò con le mani anziché con la lingua, ma sempre dovrò "fare" qualcosa. Accogliere è un essere, servire è un fare, e non si può fare senza capire, pena fare male, servire male. Naturalmente il rimprovero è vero, molto spesso gli uomini non capiscono, nonostante si impegnino. Il mondo è così, siamo esseri imperfetti, fatevene una ragione. Non saremo mai all'altezza dei vostri bisogni e delle vostre aspettative, non sapremo mai servirvi così bene da soddisfare ogni vostro desiderio. Questo solo Dio può farlo. Però in realtà oggi voglio parlare di altro. Mi sarà lecito dire una volta, anche una volta sola e sia pure per celia, che anche le donne non capiscono gli uomini? E la cosa è assai più complicata dal fatto che invece spesso son convinte di capirli. Ci sono così le donne che hanno in testa l'idea che l'uomo sia un eterno bambino e lo trattano come si tratta un ragazzino (dimenticando che il modo migliore di indispettire un ragazzino è di trattarlo come tale, il bimbo vuole semmai essere trattato da adulto). Ci sono anche quelle che hanno in testa lo schema semplificato on-off, come se l'uomo si concentrasse tutto in un unico interruttore (sì, quello lì, quello del desiderio) e che una volta acceso il problema è risolto. Ci sono poi quelle che hanno paura degli uomini e che pensano che l'uomo sia sempre sotto sotto un bruto e quindi bisogna stare attenti a tenergli la briglia corta per impedirgli di scatenarsi perché sennò chissà che potrebbe fare... Credetemi, forse è vero che non siamo complicati come le donne, ma non siamo nemmeno così semplici. Non nego che ci siano i mammoni e i bruti o quelli che mettono tutta la loro maschilità nell'interruttore, ma la categoria maschile è per fortuna ben più variegata di così. Permettetemi dunque di offrirvi care amiche un brevissimo decalogo dei dieci motivi per cui amo essere maschio e mi piacerebbe che i lettori maschi del blog lo continuassero, perché non pretende affatto di essere un elenco esaustivo. Poiché credo moltissimo nella complementarietà, ça va sans dir che non c'è alcun intento di contrapposizione in questo catalogo, quindi nessuno si senta offeso vi prego, prendetelo come un contributo semiserio ad uso delle mie amiche per provare a vedere negli uomini anche qualcos'altro. AMO ESSERE MASCHIO PERCHÉ: 1) Perché amo finire un lavoro e dopo averlo finito fermarmi a guardarlo e compiacermi di ciò che ho fatto (Le donne che conosco di solito non sono capaci di finire il lavoro, prima di finirlo stanno già pensando a quello che faranno dopo. In questo Dio è decisamente maschio, perché il Sabato si ferma a guardare la Creazione). 2) Perché mi piace stare fermo come uno scoglio su cui si infrangono tutte le tempeste emotive (questa devo spiegarla?). 3) Perché mi piace osservare (I maschi osservano molto, una cosa alla volta, ma osservano). 4) Perché mi piace che i miei figli rischino l'osso del collo pur di affermare se stessi. Perché adoro condividere le loro vittorie (il fatto che io non abbia figli nella carne non cambia niente, ci sono molte forme di paternità). 5) Perché mi piace ridere forte e prendere le ondate di petto, in tutti i sensi (se vuoi conoscere una persona guarda come si comporta al mare). 6) Perché ho sempre desiderato essere un eroe (ci sono anche eroine naturalmente, ma l'eroismo femminile è molto diverso da quello maschile. Troppo lungo e serio da spiegarlo in questa sede però). 7) Perché amo troppo le parole per non sostenerle e rivestirle di gesti (il maschio, lo sanno tutti, realizza se stesso molto più nel fare che nel dire) 8) Perché mi piace fare il capro espiatorio (sì, non inorridite, mi piace pagare, faticare e soffrire al posto degli altri e ci sarà un motivo se non si è mai sentito parlare di una capra espiatoria). 9) Perché non mi fiderei di nessun altro per salvare il mondo (non è che le donne non salvino il mondo, è che i maschi non si fidano del fatto che lo facciano). 10) Perché come maschio troverò sempre qualcosa di bello e stupefacente in ogni donna che incontro e non entrerò mai in competizione con lei.
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  • Come la moglie di Schumacher protegge il marito dal gossip e dall'eutanasia

    2 JAN 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7655 COME LA MOGLIE DI SCHUMACHER PROTEGGE IL MARITO DAL GOSSIP E DALL'EUTANASIA di Valerio Pece Se nel mondo la Ferrari è il mito che è, lo si deve anche a Michael Schumacher, campionissimo avvolto da 10 anni - giorno in cui sfiorò la morte cadendo dagli sci - da due parole-chiave: riserbo e amore. Va detto che il rigoroso silenzio sul suo reale stato di salute si è imposto anche per combattere il triste sciacallaggio che lo ha toccato da vicino: dai paparazzi pizzicati a utilizzare droni pur di spiare dai vetri della sua villa il pilota in coma, al furto delle sue cartelle cliniche con annessa richiesta di denaro ai giornali (finì malissimo: nel 2014 il sospettato del furto si impiccherà in una cella del carcere di Zurigo). Quanto all'amore, non è difficile vedere quanto sia ancora vivo: dagli articoli che accompagnano ogni piccola novità sui suoi progressi, ai tanti tifosi (italiani in primis) che ricordano con somma riconoscenza le sue imprese (dei 7 titoli mondiali conquistati dal pilota tedesco, cinque sono stati vinti con la Ferrari). NON É PRIVACY, É AMORE Nella dolorosa vicenda, la figura più luminosa è senz'altro quella di Corinna, 54enne moglie di Michael, che da anni protegge e segue il marito in modo commovente. Solitamente parca di dichiarazioni, nel settembre scorso, in occasione dell'uscita su Netflix dell'unico documentario su Schumacher autorizzato dalla famiglia, ha rilasciato parole fortissime: «Ora seguiamo le cure, vogliamo che Michael senta che la famiglia è unita». Per poi aggiungere: «É evidente che mi manca, tutti sentiamo la sua mancanza, ma Michael c'è, è diverso ma c'è. E questo ci dà forza. Non avrei mai pensato che potesse succedergli qualcosa, ma è importante che lui continui ad assaporare la sua vita privata per come possibile. Lui ci ha sempre protetti, ora sta a noi farlo». Una manifestazione d'amore pregna di forza e di gratitudine. Dietro i gesti di Corinna Betsch, spesso non compresi fino in fondo, non c'è dunque solo la fredda tutela della privacy ostentata dai giornali e dalle interviste degli addetti ai lavori («Da dieci anni Corinna non va a feste o occasioni pubbliche perché chiunque la incontri vuole sapere delle condizioni del marito e lei ha alzato una barriera a protezione della privacy», così Eddie Jordan, il team manager che lanciò Schumacher in Formula 1, in un'intervista del gennaio scorso). Parlare di privacy, come fa la quasi totalità dei commentatori, oltre che riduttivo è ingiusto e ingeneroso. La volontà di allestire a mo' di ospedale la villa di famiglia (a Gland, sul lago di Ginevra) al fine di permettere ad uno staff medico di fornire al marito cure quotidiane racconta molto dello smisurato e incrollabile affetto con cui la signora Schumacher circonda il marito, ma soprattutto dice della volontà di continuare a vivere ogni attimo insieme, nella buona come nella cattiva sorte. Poco importa che le cure per il marito costino 10 milioni di euro l'anno (così sono state quantificate le spese mediche): pur di farlo accedere alle terapie più avanzate, come una manager premurosa Corinna ha prima messo in vendita l'aereo privato del marito e poi la villa a Trusil, in Norvegia. In quella Svizzera che la martellante propaganda radicale impone di associare all'eutanasia e alla morte, nulla dev'essere lasciato intentato in termini di cura e di vita. PIETRA D'INCIAMPO L'unico che sembra aver compreso a fondo il nuovo contesto umano suscitato dall'incidente del pilota tedesco, calandosi nell'inedita realtà famigliare con assoluta normalità è Jean Todt, direttore generale della Scuderia Ferrari e amico fraterno di Schumi. «Non posso dire che Michael mi manca perché lui, alla fine, c'è», ha dichiarato Todt al quotidiano francese L'Equipe. Tra i pochissimi a entrare regolarmente a casa del sette volte campione del mondo, Todt ha aggiunto: «Oggi è uno Schumacher diverso ed è magnificamente sostenuto da moglie e figli che lo proteggono. La sua vita è cambiata e io ho il grande privilegio di poter condividere alcuni momenti insieme a lui. Questo è tutto quello che c'è da dire». A proposito di candidi momenti di condivisione, rumors parlano di gare di Formula 1 guardate alla tv dai due amici sul divano di casa Schumacher. Ed è proprio in questo "esserci in modo diverso" che si gioca la comprensione che oggi il mondo ha del campione di automobilismo. Costringendo tutti a uno sforzo sul senso profondo della vita, Michael Schumacher, inutile negarlo, oggi è una pietra d'inciampo. Ma è proprio questo tipo di riflessione che non può più chiedersi al dibattito odierno, impoverito e umiliato da un relativismo dilagante. Ecco allora l'imbarazzo dei cronisti. Palpabile. Coglie il punto Mario Donnini con un editoriale su Autosprint. «C'è e non c'è, è vivo ma non interagisce», scrive lo scrittore e giornalista, «non interviene, non può farlo [...] se ne ragiona molto spesso a sproposito, giocando a indovinare invece di rispettare, a carpire al posto di capire». Ma è il passaggio successivo quello in cui Donnini tocca il nervo scoperto del nostro tempo: «E così nel mondo iperconnesso h24, in cui chiunque sa e si racconta come vuole, uno tra gli uomini più conosciuti del mondo diventa improvvisamente impercepibile. Svanisce, si decontestualizza, perde domicilio mediatico per scelta dei suoi cari, i quali ritengono di non dover far altro che curarlo, custodirlo e proteggerlo». Si può rimanere vivi (continuando a stupire e a vincere) in molti modi. Oggi Michael, Corinna e i loro due figli sono protagonisti di un secondo tempo della gara che va raccontato, perché è una lezione di vita impagabile, quella della vittoria dell'amore sul dolore. «Forte come la morte è l'amore»: quanto si legge nel Cantico dei Cantici lo vivono ancora oggi due innamorati in una villa di Gland adattata a ospedale. Sempre e per sempre.
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  • Come salvare i figli dallo smartphone

    2 JAN 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7652 COME SALVARE I FIGLI DALLO SMARTPHONE di Cristina Siccardi Smartphone e social media, come ben sappiamo, hanno radicalmente cambiato la vita di tutte le persone, di qualsiasi età e di qualsiasi ceto sociale. Tutti gli strumenti, più o meno complessi, hanno mutato nel corso della storia la vita quotidiana delle persone e il loro impatto è stato positivo o negativo a seconda del loro utilizzo, ovvero dal criterio con cui ciascun individuo se ne serve. Ma quelli di cui stiamo parlando hanno un impatto massificante di straordinario potere persuasivo, plagiatorio, psicologico. La commercializzazione degli smartphone è iniziata nel 1993 con IBM e, in breve tempo, essi hanno riempito i mercati mondiali con migliaia di modelli e centinaia di milioni di utenti. Il primo social network della storia corrisponde al sito americano SixDegrees, lanciato a New York nel 1997 dal suo fondatore Andrew Weinreich. I social media hanno rappresentato un cambiamento nel modo in cui le persone leggono, apprendono e condividono, senza sosta, informazioni e contenuti. Con i social media è mutato completamente il modello di comunicazione tipico dei media tradizionali (radio, stampa, televisione): il messaggio non è più "da uno a molti" (monodirezionale, dal broadcaster al suo pubblico), ma "da molti a uno", con elevato livello di interazione. L'informazione si è "democratizzata" in un liberalismo esasperato, trasformando i soggetti da meri fruitori a editori di se stessi, interconnettendosi con altri soggetti monitorati in tutto il mondo attraverso colossi mediatici come Facebook, LinkedIn, Instagram, TikTok. Oggi esiste una vera e propria bulimia nell'uso degli smartphone e dei socialmedia. Attività e virtù come autodisciplina e temperanza, moderazione e sobrietà, equilibrio, stabilità, prudenza e armonia, concentrazione e silenzio sono andate smarrite nella civiltà edonistica, del "mordi e fuggi", dell'insaziabilità su più fronti, della frenesia, dell'ansia, del frastuono acustico e visivo, dove la massa di informazioni si schianta con la vuotezza di principi e valori giusti e sani. Fatto incontestabile è che chat e videogiochi (solitari o in comunità web) creano enorme dipendenza: soggiogano, ingabbiano mente e spirito, sviluppando problemi e condizionamenti a dismisura. Essere interconnessi continuamente, da quando ci si sveglia a quando si va a dormire, significa avere l'attenzione degli innumerevoli "amici" sui propri pensieri, sentimenti, intenzioni. UN BILANCIO ALLA LUCE DELLA FEDE CATTOLICA Dopo più di vent'anni di uso incessante di questi dispositivi e di questo genere di comunicazione, quale bilancio si può dare? Il tema non può certo essere esaurito in questo contesto. Tuttavia, possiamo considerarne le conseguenze e, allo stesso tempo, alla luce della fede cattolica e quindi delle sane virtù, possiamo risparmiare figli e nipoti da squilibri, fobie e schizofrenie che provengono dall'uso paranoico e smodato di tali strumenti. Tanto è forte il collegamento fra lo smartphone e i comportamenti adolescenziali che la professoressa Jean M. Twenge, docente di psicologia della San Diego State University, ha definito questa generazione «iGen», generazione «iphone». Da venticinque anni Twenge studia i trend generazionali. Ha lavorato sul senso di ribellione dei Baby boomer (i nati dal 1945 al 1965), sul desiderio di indipendenza della generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980), sull'individualismo dei Millennials (nati fra il 1980 e il 2000) e confrontando i dati comportamentali di queste ultime generazioni, con famiglie spesso dissestate, ha rilevato che gli adolescenti di oggi sono più depressi, passano il tempo con i coetanei soprattutto sui telefonini, sono soli, vulnerabili, con precaria salute mentale e a maggior rischio di suicidio. Essi sono molto fragili, benché spavaldi. I tassi della depressione e di suicidio sono aumentati dal 2011 ad oggi. Gran parte della crisi del deterioramento della salute mentale può essere ricondotto all'uso smodato dei telefonini. L'ascesa dello smartphone e dei social media hanno causato un terremoto di proporzioni mai viste. I dispositivi che si sono messi nelle mani dei giovanissimi stanno avendo profondi effetti sulla loro vita, rendendoli seriamente infelici. Ormai ci sono genitori che consegnano, senza alcuno scrupolo, gli smartphone a bimbi di 2/3 anni e tale deplorevole scelta avrà ripercussioni spaventose. In media, la maggior parte degli adolescenti trascorre dalle 3 alle 6 ore al giorno con lo smartphone, utilizzato anche a scuola durante le lezioni. Tutto questo tempo passato sugli schermi interconnessi creano dipendenza, isolamento, insorgenza di malattie cardiovascolari, disfunzioni metaboliche e diabete, come ha evidenziato in rete l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Inoltre, una scarsa qualità del sonno favorisce stanchezza, depressione, abuso di alcol, disturbi ossessivo-compulsivi, abuso di sostanze, atti di autolesionismo, risultati scolastici scadenti... considerando anche il fatto che l'uso eccessivo dello smartphone può determinare un approccio superficiale all'apprendimento e induce alla distrazione e ad un notevole abbassamento della concentrazione. L'OZIOSITÀ INSEGNA OGNI SORTA DI VIZI Ogni anno, quasi 46.000 bambini e adolescenti tra i 10 e i 19 anni si tolgono la vita in tutto il mondo, circa uno ogni undici minuti. Il suicidio è la quinta causa di morte più comune fra i giovanissimi e la quarta nella fascia d'età dai 15 ai 19 anni (la terza se si considerano solo le ragazze). Sono tra 3.700 e 4.000 le persone che ogni anno si tolgono la vita in Italia (dati Istat relativi al periodo 2016-2020). Il dato riferito ai giovani fra i 15 e i 34 anni registrato nello stesso periodo è in media di circa 500 suicidi. Come è noto le varie forme di violenza psicologica e fisica fra i minori è cresciuta in modo esponenziale (baby gang) grazie anche all'imperversare sui dispostivi tecnologici delle infauste canzoni dei rapper, che mietono odio, ribellione, sesso, droga, alcol e violenza in genere. Poiché le autorità non pongono freno ("per il bene" delle lobby economiche di potere e della "democrazia") a questo tsunami, che miete vittime e si beffa di tutti, di piccoli e grandi, è bene recuperare le medicine dell'educazione cattolica, così stanno facendo le famiglie rimaste fedeli al Vangelo. Esse fanno riferimento all'eccellente tradizione pedagogica della Chiesa e vanno a leggersi, grazie ai suggerimenti di sacerdoti e intellettuali, ciò che lasciano scritto i santi maestri educatori. Poiché il tempo è preziosissimo (è breve e non torna più), è fondamentale impiegarlo al meglio, non certo nell'ozio (lo smartphone non è forse una grave forma di ozio?). Scriveva san Giovanni Bosco: «Dalle letture [oggi si potrebbe anche aggiungere: dalle chat] dipende moltissime volte la scelta definitiva (per i giovanetti) che fanno del bene o del male» per sé e gli altri, quindi: «Fuggite l'ozio e gli oziosi, lavorate secondo il vostro stato; quando siete disoccupati siete in gravissimo pericolo di cadere in peccato. L'oziosità̀ insegna ogni sorta di vizi» e «Abborrite le malvagie letture più che la peste». Per conservare la purezza, la Chiesa preconciliare, che lottava contro liberalismo, socialismo e spirito rivoluzionario, esortava a tenere lontano le cattive letture e la cattiva cinematografia, veleno per le anime. Affermava ancora don Bosco: «La felicità non si trova in questo mondo, se non si ha la pace con Dio; se [la gente] è così malcontenta ed arrabbiata, è perché́ non pensa alla salute dell'anima sua». [...]
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  • Per difendere le donne dobbiamo tornare al patriarcato

    5 DEC 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/edizioni.php?id=850 PER DIFENDERE LE DONNE DOBBIAMO TORNARE AL PATRIARCATO L'assassino di Giulia Cecchettin non è figlio del patriarcato, ma del '68, relativista e femminista che oggi permea la società (se invece la moglie rispetta il marito, non viene uccisa, ma è amata, rispettata e difesa) di Roberto De Mattei Dopo l'omicidio di una giovane donna, Giulia Cecchettin, avvenuto lo scorso 11 novembre, l'Italia ha scoperto di essere minacciata dal patriarcato, Il titolo di un dossier del quotidiano "La Repubblica" del 24 novembre è eloquente: "Femminicidi fermiamo la strage". La tesi, che è la stessa diffusa dai mass-media, dai social e da ogni tipo di influencer è che esiste una strage di femminicidi e la responsabilità va attribuita alla cultura del "patriarcato", ancora dominante. Bisogna combattere il patriarcato per fermare la violenza contro le donne. Il patriarcato era un sistema sociale che sanciva l'autorità dell'uomo e la divisione dei ruoli all'interno della famiglia. L'autorità paterna è stata sempre considerata, ad eccezione del tempo presente, come uno degli elementi invariabili dell'ordine sociale, necessaria a tutti i popoli e in tutti i tempi. Per secoli, il padre ha esercitato nella famiglia il ruolo che il sovrano esercitava nella società politica (la stessa parola patria deriva da padre) e che il Papa, il "Santo Padre" esercita nella Chiesa. Ancora cinquant'anni fa era questo il modello familiare italiano: il padre doveva guidare la famiglia e provvedere al suo mantenimento economico, la madre si occupava della casa e dell'educazione dei figli, che erano numerosi. Il nucleo familiare comprendeva spesso anche i nonni, depositari di una tradizione che si trasmetteva di generazione in generazione. Questo sistema sociale è stato distrutto dalla rivoluzione culturale del Sessantotto, e da ciò che ad essa è seguito: leggi come il divorzio, l'aborto, e, in Italia, soprattutto la legge sul nuovo diritto di famiglia del 22 aprile 1975, che ha decapitato l'autorità paterna, abolendo la preminenza giuridica del padre contribuendo alla scomparsa dell'autorità e dell'identità nelle famiglie italiane. LA DISTRUZIONE DELLA FAMIGLIA Tra gli ideologi del ‘68, ricordiamo anche i teorici della "antipsichiatria", come David Cooper, autore di un libro più volte ristampato da Einaudi, dal titolo significativo La morte della famiglia. Questa era la convinzione che iniziò a diffondersi alla fine degli anni Sessanta del Novecento: l'estinzione, prossima e inevitabile, dell'istituto famigliare. In quel saggio, Cooper proponeva di cancellare il ruolo paterno sostituendolo con quello fraterno, auspicando quindi una paradossale società di fratelli senza padre, anzi di fratelli perché assassini del Padre: come era successo nel 1793 con l'assassinio del Re di Francia, come auspicava Nietzsche profetizzando l'assassinio di Dio Padre. Il processo di democratizzazione della Chiesa, della società e della famiglia è un tutt'uno. La distruzione della famiglia doveva far leva particolarmente sulla "liberazione" della donna. Il femminismo ha preteso di abolire la distinzione dei ruoli maschile e femminile, distruggendo la vocazione naturale alla maternità e alla femminilità. La rivendicazione del "diritto" di aborto e di contraccezione è stata avanzata come diritto della donna ad autodeterminare il proprio corpo e la propria sessualità, liberandosi dall'autorità maschile e dal "peso" della maternità. Alla mascolinizzazione della donna ha corrisposto la devirilizzazione dell'uomo, promossa a tutto spiano dalla moda, dalla pubblicità e dalla musica. La teoria del gender è un punto di arrivo, ma gli slogan contro la cultura del patriarcato che oggi risuonano, hanno la loro origine in manifestazioni femministe come quella che si svolse a Roma il 6 dicembre 1975, animata da circa ventimila donne, che ritmavano slogan come questo: "Non più mogli, madri, figlie! Distruggiamo le famiglie!". E la famiglia è stata distrutta. Si è dissolta l'autorità del padre, si sono soppressi i ruoli di genere e tutti i componenti della famiglia, padre, madre e figli, soffrono una profonda crisi di identità. La famiglia patriarcale non esiste più in Italia, salvo poche isole felici. E in queste poche isole che più che patriarcali dovremmo definire naturali, la moglie rispetta il marito e i figli rispettano i genitori, e la donna non viene uccisa, ma è amata e rispettata. L'assassino di Giulia Cecchettin non è figlio della cultura del patriarcato, ma della cultura sessantottina, relativista e femminista che oggi permea la società intera e di cui tutti sono responsabili e vittime allo stesso tempo. UNA SOCIETÀ DI SINGLE Ma la crisi della famiglia va oltre la fine della famiglia patriarcale. L'Italia si avvia ad essere una società di "single", senza più famiglie. Secondo l'ultimo rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese, nel 2040 solo una coppia su 4, cioè il 25,8% del totale, avrà figli e le famiglie composte da una sola persona saranno il 37%. Il 34% degli italiani saranno anziani e soli. Ciò perché oggi è in crisi non solo la famiglia, ma l'esistenza stessa di una coppia. Non solo ci si sposa sempre di meno, e si mettono al mondo meno figli, ma si convive anche di meno, perché si rifugge dall'idea di avere una qualsiasi responsabilità verso un partner o compagno, che si ha paura di avere troppo a lungo vicino. Il cosiddetto femminicidio non è frutto della vecchia cultura patriarcale, ma della nuova cultura anti-patriarcale, che confonde le idee, fragilizza i sentimenti, destabilizza la psiche, privata di quel sostegno naturale che, fin dalla nascita, offriva la famiglia, con suoi punti di sicurezza, paterni e materni. L'uomo è solo con i suoi incubi, le sue paure, le sue angosce, sull'orlo di un abisso: l'abisso del vuoto in cui si precipita quando si rinuncia ad essere ciò che si è, quando si abbandona la propria natura immutabile e permanente di uomo, di donna, di padre, di madre, di figlio. E se tutti parlano di femminicidio, nessuno parla di un crimine ben più esteso e diffuso: quello di infanticidio, commesso ogni in giorno in Italia, in Europa e nel mondo, da padri e madri che esercitano la massima delle violenze contro il proprio figlio innocente, prima ancora che egli veda la luce. Una società che uccide i suoi figli è condannata a morte e l'alito della morte, sotto ogni forma, non solo quella del femminicidio, si fa sentire sempre di più. La vita, la restaurazione della società, è possibile solo riconquistando il modello naturale e divino della famiglia. Per fermare la follia che distrugge la nostra società bisogna tornare, con l'aiuto di Dio, al modello di famiglia patriarcale, fondata sull'autorità del padre, capo della famiglia e sulla santità della madre, che ne costituisce il cuore: uniti entrambi nel compito di procreare ed educare dei figli per farne dei cittadini del cielo. L'alternativa è l'inferno, che già inizia su questa terra.
    9m 28s
  • E' valido il matrimonio di chi si sposa senza fede?

    13 SEP 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=836 E' VALIDO IL MATRIMONIO DI CHI SI SPOSA SENZA FEDE? Basta sposarsi secondo i valori naturali di un autentico matrimonio (fedeltà, indissolubilità, apertura alla vita, ecc.) perché il matrimonio sia valido di Jacques-Yves Pertin I cattolici che si sposano in Chiesa senza fede, o con poca fede, ricevono il sacramento del matrimonio? Questione molto attuale, che ne implica un'altra: qual è l'influenza di una società scristianizzata, a volte perfino ostile ai valori del matrimonio, sulla validità del matrimonio cristiano? Cominciamo a capire cos'è precisamente il "matrimonio cristiano". Come afferma la Chiesa nel Codice di Diritto Canonico (can. 1057 § 1) «l'atto che costituisce il matrimonio è il consenso». La natura stessa inclina l'uomo a dare questo consenso. In altre parole: «Il sacramento del matrimonio ha questo di specifico fra tutti gli altri: di essere il sacramento di una realtà che già esiste» nella natura che Dio ha creato. Ciò significa che il matrimonio è una realtà naturale, prima di essere un sacramento. Come fa notare lo stesso canone, il fatto di sposarsi non si riferisce al compimento di un'attività specificamente soprannaturale, ma al conseguimento di azioni naturali come procreare ed educare i figli. È proprio questo matrimonio naturale, come insegna san Paolo, che è stato elevato alla dignità sacramentale per permettere agli sposi, citando Leone XIII, di «ricevere la santità nel matrimonio stesso». Così la realtà naturale è diventata inseparabile dalla realtà sovrannaturale. Tra battezzati, ormai, il mutuo consenso non può essere separato dal sacramento. Va sottolineato, però, che «non c'è accanto al matrimonio naturale un altro modello di matrimonio cristiano con specifici requisiti soprannaturali». Gli sposi cristiani non fanno un matrimonio naturale e un matrimonio sacramentale, come ingenuamente si potrebbe credere nei Paesi dove c'è prima il matrimonio in Comune e poi in Chiesa. Il sacramento non cambia l'essenza del matrimonio, lo eleva. Quanti sposi fanno l'esperienza di questo nella loro vita: nelle difficoltà, come anche nella vita quotidiana, la grazia del matrimonio data da Dio viene a santificare tutto, viene a dare l'aiuto necessario giorno dopo giorno. La vita degli sposi non è da un lato naturale e dall'altro sopranaturale. Il "matrimonio cristiano" è innestato nella vita coniugale degli sposi, sicché ogni minima azione viene fatta con Dio e per Dio. Da ciò si conclude che chiedere per il sacramento del matrimonio un requisito di fede, al di là di quello di voler sposarsi secondo i valori naturali di un autentico matrimonio (fedeltà, indissolubilità, apertura alla vita, ecc.), può condurre a gravi errori sulla natura stessa del matrimonio, a ridurre il diritto di tutti a sposarsi, o ancora a voler «separare il matrimonio dei cristiani da quello delle altre persone». Se gli sposi si scambiano tale consenso senza negare una delle qualità essenziali del matrimonio, la loro mancanza di fede non può "invalidare" un tale matrimonio poiché il matrimonio naturale e il sacramento sono diventati dopo la venuta di Gesù Cristo "la stessa e unica cosa". Sicuramente è una questione molto delicata. Il Papa stesso, con grande umiltà, la affrontava davanti ai sacerdoti della diocesi di Aosta nel 2006 dicendo che personalmente aveva creduto, quando era Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, che un matrimonio celebrato senza fede fosse nullo: "Io personalmente lo pensavo". Spesso infatti i numerosi fallimenti dei matrimoni e portano la gente a pensare che se uno va in Chiesa a sposarsi e che non "ci crede", non è sposato. Non è così! Ogni uomo ha un potere naturale speciale e unico di darsi al suo coniuge, potere davanti al quale Dio quasi sembra cedere il passo: è un grande potere, ed è una grande responsabilità. Il sacramento del matrimonio vive in tutti coloro che fanno un vero matrimonio perché la Grazia non distrugge la natura ma la perfeziona.
    5m 11s
  • Come si educano gli adolescenti

    22 AUG 2023 · VIDEO: Franco Nembrini ➜ https://www.youtube.com/watch?v=NAZACKOwRq4 TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7507 COME SI EDUCANO GLI ADOLESCENTI di Fiorenza Cirillo Ah, le vacanze! Periodo di rinascita, per tutti, tempo prezioso da condividere con i figli... a meno che non siano adolescenti. L'alterità di un figlio è qualcosa che sciocca e stupisce fin dal primo momento in cui li teniamo in braccio, ma c'è un periodo glorioso, che è quello dell'adolescenza, in cui questa alterità esplode in tutta la sua brutalità. Pare che nulla di quello che facciamo come genitori venga da loro apprezzato e più andiamo loro incontro e meno ci riesce il contatto. E poi c'è la faccenda dell'educazione che opprime noi che, a nostra volta, opprimiamo loro. È infatti uno sperticarsi di tentativi di proporre qualcosa che noi avremmo fatto alla loro età, qualcosa che noi avremmo dovuto fare alla loro età o che avremmo dovuto voler fare, se avessimo avuto, allora, il senno di poi che ora abbiamo. In questo modo rischiamo di vivere l'educazione come una pretesa, perché la confondiamo con il tentativo di fare diventare nostro figlio quello che noi vorremmo che fosse, ma a lui di quel che noi vogliamo che sia non gliene importa niente e fa bene. Ma quando parliamo di educazione, di che cosa parliamo? COSA SIGNIFICA PARLARE DI EDUCAZIONE? Recentemente mi hanno provocata e affascinata le parole del prof. Franco Nembrini in un incontro a Cesena su adulti e adolescenti, di rado infatti ho sentito parlare con tanta chiarezza di un tema così urgente. Lo slogan con il quale esordisce sull'argomento è già estremamente eloquente: "Il segreto dell'educazione è non avere il problema dell'educazione, se hai il problema dell'educazione, vuol dire che fai parte del problema". Cita poi un vecchio articolo del Corriere della Sera in cui un neurologo infantile spiega chiaramente che un bambino che sta per nove mesi nella pancia di una donna contenta, più facilmente verrà al mondo con un sentimento positivo della vita e la percepirà come una cosa grande, buona, bella. Al contrario, un bambino che passa nove mesi nella pancia di una donna incazzata, arrabbiata con sé, col marito che la tradisce, col figlio grande che c'è già e la fa tribolare, quel bambino più difficilmente sentirà la vita come un bene. Se le cose stanno così, vuol dire che la cosa più importante nell'educazione è far sì che il bambino, e poi il ragazzo, abbia attorno a sé un sentimento positivo della vita da cui assimilare come per osmosi il bello dell'esserci. Come lo apprende? Semplicemente guardando gli adulti che gli danno, con la loro testimonianza, l'idea della vita. Il problema vero dell'educazione, dunque, è che cosa vede il bambino quando ci guarda. "La prima grande verità" insiste Nembrini "è che l'emergenza educativa in cui viviamo non è l'emergenza di ragazzi che non vanno bene, ma è l'emergenza di una generazione di adulti che non ha speranza sufficiente da dare ai propri figli, non ha un'ipotesi grande per cui vivere. Tutti noi adulti siamo senza alibi. L'emergenza educativa siamo noi. I nostri figli, il loro mestiere lo fanno, lo sanno fare per natura, perché nascono con quella cosa che si chiama cuore, una inarrestabile tensione ad abbracciare tutto, a conoscere tutto, ad amare tutto. E anche se da bambino è inconsapevole di questa tensione positiva, poi, crescendo, comincia a rendersi conto di avere dei desideri. [...] Per questo un figlio non ha bisogno che gli si dica spesso che cosa deve fare, come deve essere, non si tratta di insegnargli a diventare grande, perché impara semplicemente guardandoci. Il problema dell'emergenza educativa è chiedersi: quando guarda noi, che cosa vede? Se non si capisce questo, è inevitabile il fallimento, è davvero decisivo questo aspetto, perché è la fonte di tutti gli equivoci. In famiglia, a scuola, in oratorio, il bambino, il ragazzo apprende così". DOVE SONO GLI EDUCATORI? Riporta poi un esempio della sua fanciullezza: "Io son certo di una cosa nel rapporto con mio papà. Io avrei potuto giurare, ero bambino, eh, ma avrei potuto giurare che, quando mio padre mi guardava, se riuscivo a intravedere un sorriso, un qualche sorriso, appena appena l'ombra di un sorriso di compiacimento, io impazzivo, io sentivo che mio padre avrebbe dato la vita per me lì, in quell'ora, in quel momento. Avrebbe dato la vita per me, senza chiedermi di cambiare. In questo senso sono sempre stato grato dell'amore che ho colto nella mia storia. [...] Ringrazierò mio padre per l'eternità di una cosa: che si è occupato della sua santità, non della mia e occupandosi della sua mi ha reso invidioso, ho desiderato essere felice come lui". Rispondere ai figli con una testimonianza così luminosa fa sì che desiderino anche per sé quella contentezza e si avvicinino, invece di sentirci così nemici, così lontani, così estranei. "Perché noi veniamo fuori con delle incoerenze mostruose: parliamo di alti valori e poi l'unico valore del figlio che prendiamo in considerazione è dato dalla performance scolastica, dalla pagella. Quando disubbidisce, quando ti insulta, quando scappa di casa, quando si ammazza di canne in realtà sta gridando: papà, mamma, prete, maestro, maestra, suora, adulto, dove siete? L'educatore è quello che sente il grido di questi ragazzi. Giovanni Bosco, a Torino, andava con le tasche piene di caramelle dalla polizia a chiedere che quei ragazzi di strada li dessero a lui, perché lui riusciva a sentire il grido di quei ragazzi: "Fatemi vedere che vale la pena!" Il problema educativo è tutto qui". Se dunque vale la pena, non ci sarà bisogno di tante spiegazioni, ma di un vivere nostro che testimoni la bellezza di diventare grandi.
    7m 28s
  • Famiglie numerose... che forza!

    23 MAY 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7418 FAMIGLIE NUMEROSE... CHE FORZA! di Christine Stoddard Sono la primogenita di una figliata di 9: 8 femmine e un maschio. Ne sono fiera. Certo, devo ammettere che ho patito una specie di vergogna durante i miei anni adolescenziali, in particolare, quando la gente si avvicinava al nostro furgoncino o quando ci osservavano sbalorditi entrare in uno spazio pubblico. Ormai, oggi, sinceramente, non cambierei questa condizione per niente al mondo. Se mi domandate che cosa mi spinga a pubblicare questo scritto, vi risponderò che ho letto un articolo molto interessante, domenica scorsa, sul New York Times. In questo articolo, la giornalista Lauren Sandler affermava vigorosamente che era meglio avere un solo ed unico figlio. Essendo lei stessa stata figlia unica e non avendo che un solo figlio... non mi riesce difficile comprendere che difenda un simile asserto. [...] Come potrete immaginare, non sono affatto d'accordo con lei. Potrei dire che i figli unici che ho incontrato sono egoisti e hanno difficoltà ad adattarsi. [...] In ogni caso, non cerco affatto degli esempi che dimostrino gli svantaggi di essere figli unici. Cerco solamente di esprimere quanto sono riconoscente di avere tanti fratelli e sorelle. IMPARARE A COABITARE Ci sono, evidentemente, dei benefici collaterali: come il fatto di non essere mai soli di fronte a un problema; se ti ammali, qualcuno ti starà vicino... e quella sensazione che il tuo armadio sia senza fondo! Che sia sempre pieno di cose prestate! Senza dimenticare che l'educazione dei miei fratelli e sorelle resta un argomento di conversazione che si conclude molto spesso con dei silenzi imbarazzati; se ho bisogno di riderne, subito mi tornano alla mente situazioni impreviste. Ma c'è molto di più! A cominciare da mio padre e mia madre, che (probabilmente senza averne l'intenzione) si sono facilitati parecchio la vita genitoriale, avendo più di un figlio. Anche se non avevano sempre un'idea ben precisa di ciò che stavano facendo, avere fratelli e e sorelle ci ha insegnato a condividere e a coabitare con altre persone, con naturalezza, a tirarci su ed educarci a vicenda... È quello che possiamo definire un'accumulazione naturale di buone qualità. Quando hai dei fratelli e delle sorelle, sei ben conscio che non tutto è tuo. Una cosa estremamente apprezzabile, in un'epoca in cui l'individualismo è alle stelle. Senza il minimo sforzo, abbiamo scoperto l'interazione sociale e la risoluzione dei conflitti. Abbiamo imparato ad avere compassione, a restare coscienti dei sentimenti e dei bisogni del prossimo, e non solo dei nostri. VEDERE LA VITA ALTRIMENTI Abbiamo beneficiato della generosità dei nostri genitori, che ci hanno accettati l'uno dopo l'altro malgrado il fatto che si facessero beffe di loro, o senza considerare che si avvicinavano tempi duri. Papà ci ricorda che ci sono stati dei periodi, di cui non ci ricordiamo, durante i quali mamma e lui si domandavano se potevano permettersi di andare a mangiare al McDonald. Con tanti fratelli e sorelle, non abbiamo mai avuto in mano l'ultimo grido della tecnologia, ma suppongo che questo ci abbia insegnato un po' più sulla vita, al di là delle cose che si possono avere. Abbiamo potuto sviluppare uno spirito di sana competitività, abbiamo potuto renderci conto che se anche avevamo fallito in qualcosa, non era questa una buona ragione per buttarci giù. Al tempo stesso, tutto questo ci ha stimolati ad apprezzare le qualità uniche degli altri, senza stare a fare paragoni: sia nell'ambito accademico sia in quello creativo o atletico. Ammesso e non concesso che abbiamo passato in rassegna tutti i vantaggi della situazione, dovrei ammettere che in più abbiamo ricevuto un regalo bellissimo: delle amicizie solide. Che sia per il semplice momento della colazione, o piuttosto per l'evento eccitante dello scegliere l'abito nuziale, non ho mai mancato di compagnia. È quello che si chiama amore, perché i miei fratelli e sorelle sono stati molto presenti nella mia vita, nei momenti peggiori e in quelli migliori. Sono persuasa che il fatto di avere fratelli e sorelle sia un aiuto apprezzabile nella ricerca della vera felicità. Perché? Perché una persona va avanti per la strada giusta, quando realizza che la vita consiste più nel dare che nel ricevere. Con dei fratelli e delle sorelle, si arriva molto presto a questa conclusione. E naturalmente la famiglia perfetta non esiste, ma ho pure la certezza che esistono tante persone che mi amano, incondizionatamente, quando io non ho fatto niente per meritarlo. Ecco qualcosa di decisamente speciale. Perché trascurare una così bella occasione di fondare un opificio di felicità, se ne avete la possibilità?
    6m 30s
  • Una bella notizia: siamo otto miliardi di abitanti

    26 APR 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7392 UNA BELLA NOTIZIA: SIAMO OTTO MILIARDI DI ABITANTI di Federico Cenci Siamo otto miliardi di persone nel mondo. Il record - come annunciato dalle Nazioni Unite - è stato raggiunto il 15 novembre. Per avere un'idea dello sviluppo demografico complessivo, basti considerare che rispetto al 2011 siamo aumentati di un miliardo. E che rispetto al 1974, siamo raddoppiati. Il prossimo obiettivo fissato dall'Onu dovrebbe essere raggiunto nel 2037, quando verranno superati i 9 miliardi. Dovremmo gioire di questi dati, giacché rappresentano il risultato dei progressi sanitari e medici. Eppure, come del resto è ampiamente prevedibile, hanno dato fiato alle trombe dei catastrofisti. È tornato ad agitarsi lo spettro di Thomas Robert Malthus, l'economista e demografo che già a fine Settecento predicava la necessità di allentare la pressione demografica per arginare povertà e fame nel mondo. Bisogna riconoscere a costoro, ai cosiddetti neo-malthusiani di sapersi adattare ai cambiamenti: gli annunciatori di sciagure a causa delle tante nascite non cessano infatti la loro disfattistica attività. È piuttosto noto a tal proposito quanto avvenne negli anni Sessanta: un collegio di esperti internazionali si riunì all'Accademia dei Lincei nel cosiddetto Club di Roma per lanciare un allarme. Nel mondo - avvisavano - c'erano quattro miliardi di persone, considerate troppe, per cui di lì a poco inesorabilmente le risorse si sarebbero esaurite e lo sviluppo arrestato. Sono passati quasi sessant'anni, ma - come direbbe Vasco Rossi - siamo ancora qua. Nessuna fine del mondo. Anzi, la fame e la povertà si sono notevolmente ridotte grazie ai passi da gigante della tecnica. È comprensibile che si faccia fatica a crederci, dal momento che la campana mediatica delle notizie negative non smette mai di oscillare nervosamente. Per avere allora un riscontro empirico sul miglioramento progressivo della condizione umana generale, si può visitare il sito Our World in Data: la popolazione è costantemente aumentata e così anche il suo tenore di vita. L'inizio di questo processo viene collocato da molti nella rivoluzione industriale, ma forse occorre spostare le lancette dell'orologio di un paio di secoli: come dimostra uno studio pubblicato sempre su Our World in Data, in Inghilterra già subito dopo il 1650 cominciò a crescere sia la popolazione sia il reddito pro capite. La storia, dunque, è maestra di vita, almeno quanto lo è l'attualità. Oggi, d'altronde, i Paesi in ascesa sullo scacchiere geopolitico sono quelli più popolosi, giovani e fecondi. Al contrario, la crisi morde il calcagno delle aree del pianeta in cui si fanno meno figli. Un esempio di tal risma, purtroppo, ce l'abbiamo dentro casa: periodicamente l'Istat sciorina previsioni sempre più cupe sul futuro demograficamente arido dell'Italia. Il concetto è piuttosto semplice: se diminuisce la popolazione e si riduce il numero di famiglie con figli, aumenta il divario tra individui in età lavorativa e non, a tal punto che il sistema di previdenza sociale rischia di esplodere. Cosa possiamo quindi fare noi italiani? Proviamo a rispondere con tre regole: la prima è non lasciarsi persuadere da chi profetizza sciagure dovute alla sovrappopolazione; la seconda è impegnarsi con i propri mezzi affinché si creino condizioni economiche e culturali per accrescere la natalità; la terza è sostenere i piani di sviluppo e di cooperazione nei Paesi del Terzo Mondo.
    4m 22s
  • Un asilo abolisce la festa del papà... per non discriminare

    21 MAR 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7356 UN ASILO ABOLISCE LA FESTA DEL PAPA'... PER NON DISCRIMINARE La festa di san Giuseppe divenne festività civile nel 1949 e lo restò fino al 1977, quando fu abolita dalla Democrazia Cristiana al governo (!?), poi fu tolto anche il precetto religioso per cui non è più obbligatorio andare alla Messa quel giorno di Roberto Marchesini A Viareggio una scuola per l'infanzia (un tempo detta asilo) abolisce la festa del papà: «È discriminatoria nei confronti di chi non ha un papà». I lettori della Nuova Bussola non sprecheranno certo tempo a controbattere questa affermazione: hanno ormai capito benissimo che l'obiettivo non è eliminare le discriminazioni, ma la festa del papà. Se non ci fosse la scusa della discriminazione se ne inventerebbero un'altra, di tipo scientifico («Il papà appartiene al passato, ormai possiamo creare bambini senza un uomo»), antirazzista («San Giuseppe era etero e bianco, non va festeggiato») oppure ambientalista («Le zeppole di san Giuseppe inquinano, la ricetta originale non prevede farine proteiche!») e via delirando. «Tutto ciò che esiste, merita di perire», diceva Mefistofele nel faust di Goethe; «Tutto ciò che esiste, merita di perire», ripetevano appena potevano Marx ed Engels. La festa del papà va abolita, punto. Perché esiste, perché ricorda la legge naturale. Poi un pretesto si trova, uno qualsiasi, anche il più assurdo. MOTIVI DI UNA FESTA Ma perché festeggiare la festa del papà? Beh, di primo acchito, direi: per proteggere una specie in via d'estinzione. Ormai gli italiani sono estinti perché hanno smesso di riprodursi; quindi non ci sono più papà. I pochi, coraggiosi pochi papà (i «veri avventurieri», affermava Peguy) vanno onorati e festeggiati; finché ce ne sono. E poi i papà sono maschi eterosessuali, una delle specie animali più odiate del pianeta: come non solidarizzare con queste povere e innocenti vittime? Al di là di questo, cerchiamo di capire perché è stata istituita, questa festa. Il 19 marzo è la festa dei papà perché è il compleanno del papà più importante di tutti, san Giuseppe. D'accordo, un papà sui generis, considerata la faccenda; però, senza alcun dubbio, un vero padre. San Giuseppe è noto per alcune caratteristiche che lo rendono un archetipo di uomo e di padre. Innanzitutto, san Giuseppe… tace. Come ogni uomo tradizionale che si rispetti e a scorno delle femministe, che vorrebbero gli uomini ciarlieri e piagnucolanti, san Giuseppe, in tutto il vangelo, non pronuncia una sola parola. Però agisce: caspita, se agisce. Avvertito in sogno che la sua famiglia era in pericolo, fa i bagagli ed emigra in Egitto. Già, perché un padre accudisce e protegge, esattamente come fa Giuseppe. Ed è suo l'incarico di sostentare la famiglia («Col sudore della fronte», impone Dio all'uomo, «ti guadagnerai il pane»). Infatti san Giuseppe è un lavoratore, tanto che ha una seconda festa, il 1° maggio, festa del lavoro. UNA FESTA PLURISECOLARE La Chiesa ha cominciato a festeggiare san Giuseppe circa un millennio fa. All'inizio, per opera di qualche ordine religioso (Benedettini, Servi di Maria, Francescani); poi, da parte della Chiesa universale con Gregorio XV l'8 maggio 1621 e con Urbano VIII il 13 settembre 1642 (bolla Universa per orbem). Nel 1870, quando la Chiesa attraversava una persecuzione ferocissima da parte dello Stato italiano unitario, papa Pio IX proclamò san Giuseppe custode di tutta la Chiesa con il decreto Quemadmodum Deus. [...] La festa di san Giuseppe, chiamata anche «festa del papà» divenne anche festività civile con la legge 260 del 1949 e lo restò fino al 1977, quando fu abolita per motivi di «austerità» (sic). Contestualmente, perse lo status religioso di festa di precetto con la nota CEI dell'8 marzo 1977. Ma chissenefrega: resta comunque una bella festa, celebrata ancora in molti comuni italiani. E, soprattutto, ci permette di riflettere sul gran dono che Dio ci ha fatto dandoci un papà e indicando a tutti gli uomini Giuseppe, il giusto silenzioso, come modello ed esempio.
    4m 53s
Consigli utili (e verificati sul campo) su come vivere bene in famiglia
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