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Red Land' (2018) - Le atrocità subite dagli italiani nelle foibe

Red Land' (2018) - Le atrocità subite dagli italiani nelle foibe
Dec 26, 2018 · 2m 50s

TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5453 LETTERE ALLA REDAZIONE: IN DIFESA DI RED LAND, IL FILM CHE MOSTRA LE ATROCITA' SUBITE DAGLI ITALIANI NELLE FOIBE di Giano Colli Cari Amici di BastaBugie,...

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TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5453

LETTERE ALLA REDAZIONE: IN DIFESA DI RED LAND, IL FILM CHE MOSTRA LE ATROCITA' SUBITE DAGLI ITALIANI NELLE FOIBE di Giano Colli
Cari Amici di BastaBugie,
Sono un vostro affezionato lettore e sono nato in un insediamento di profughi giuliano-dalmati a Roma alla fine degli anni '50.
Sono il presidente della Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che rappresenta centinaia di migliaia di persone esuli di prima generazione e delle generazioni successive.
I miei genitori erano entrambi esuli, così come quelli di mia moglie, sbattuti dalle vicende storiche non in Italia ma negli U.S.A. Famiglie polverizzate, affetti disintegrati, prospettive annichilite. Questo è stata la tragedia dell'Adriatico orientale del secondo dopoguerra.
Le condizioni di vita degli esuli erano terribili ed hanno condizionato, così come le motivazioni che le causarono, almeno tre generazioni di persone. Ancora oggi, molta della nostra gente risente della violenza subita sulla propria pelle. Ma se quella fisica ha una facile collocazione morale, quella psicologica, verbale, discriminatoria, tesa all'oblio, ecc., è molto più subdola e, per ora, non ci risulta sia morta.
Se non sono diventato un criminale vivendo nell'emarginazione che mi ha accompagnato fino a qualche decennio fa, è perché ho incontrato Gesù nella mia vita, annunciatomi dentro la mia famiglia, perseguitata nella Terra natale non solo perché italiana, ma perché fermamente, radicalmente e fieramente credente.
La prospettiva di una vita vissuta alla ricerca di un'educazione alla fede ha consentito una risposta al vuoto esistenziale derivato non solo dallo sradicamento identitario, ma, peggio, dalla non esistenza, in quanto "se siete venuti via non eravate tanto ok", in fin dei conti perché "operai e casalinghe, agricoltori e pescatori avrebbero dovuto andarsene dal paradiso del proletariato?". La risposta semplice e diretta non è mai stata accettata, né considerata possibile o, peggio, veritiera: "se non puoi più parlare la tua lingua, se non puoi più professare la tua religione, se non puoi più esprimere il tuo pensiero, cosa resta?".
Nel lungo esodo, cominciato a ridosso della guerra e conclusosi a metà degli anni '60 (!), molti di noi hanno visto insorgere una coscienza volta alla testimonianza e, ancor prima, alla divulgazione umile e laboriosa di una storia mai raccontata, affinché ciò che è stato patito non avvenisse mai più. Ma senza conoscenza del passato è difficile non ricadere negli errori che l'hanno contraddistinto.
A fatica, nel 2004, è stata promulgata una legge per fare memoria di quegli eventi. Ad oggi, perché quella legge venga rispettata, le nostre associazioni sollecitano classi politiche ed istituzionali distratte, sempre attente al 'prossimo problema' o a quello di maggior convenienza al quale prestare attenzione.
Non abbiamo senatori a vita tra la nostra gente, nonostante ci siano figure più che degne, con famiglie sterminate eppure desiderose di trasferire sempre i concetti di pace e speranza che da sempre hanno costituito il nostro popolo.
Non abbiamo a nostro favore la sensibilità delle élite intellettuali, troppo impegnate a tarare unilateralmente i propri strumenti che inneggiano a pace e giustizia sociale senza curarsi di coloro che furono profughi/rifugiati/esiliati in patria.
Non abbiamo nemmeno la sensibilità dello Stato, che ha pagato il suo debito di guerra nei confronti della Jugoslavia, aggredita, depredando i beni costruiti in generazioni da gente autoctona e che viveva pacificamente l'Istria e la Dalmazia, tralasciando, poi, Trattati internazionali che obbligherebbero, oggi, a saldare il dovuto.
Abbiamo impiegato 70 anni per realizzare un film che tenti di far comprendere al mondo che cosa sia successo. Ci siamo riusciti solo in parte. Red Land sembra che racconti un episodio a sé stante, non organico e, soprattutto, diffuso DOPO la fine della guerra. Talmente diffuso che solo oggi, 2018, siamo riusciti a riesumare le spoglie del senatore Riccardo Gigante, fucilato presso Fiume-Rijeka in tempo di pace e seppellito in una fossa comune.
La violenza raccontata in Red Land ha causato vittime senza processo, nella stragrande maggioranza dei casi persone trucidate senza colpa, per le quali, oggi, stiamo cercando di realizzare atti di umana pietà, semplici eppure complicatissimi, come la predisposizione di lapidi multilingue in luoghi ancora nascosti e che, nell'oblio, custodiscono resti che non vengono ristorati nemmeno da una preghiera.
Realizzare quel film è stata un'impresa.
Ricordo lo sguardo snob, altezzoso e schifato di quando andammo, insieme alla Produzione, sette anni or sono a cercare fondi alla Commissione per la cinematografia del Ministero dei Beni Culturali: "questa storia non è interessante". Mi ricordo quel giorno e lo ricordo come un'ennesima umiliazione.
Chissà, se si fosse trattato di raccontare di una vicenda alla Risiera di San Sabba (quando era ancora campo di sterminio e non centro di raccolta profughi, come fu ed operò fino agli anni '60), avremmo avuto più fortuna.
Il copione di Red Land è stato letto e riletto decine di volte.
Il dibattito su come finire il film è stato argomento di appassionate discussioni tra la Produzione ed il nostro mondo. Che fare? Chiudere con un pugno nello stomaco, come quello che permane, oggi, in chi ancora non si vede adeguatamente ripagato per tutto ciò che ha patito e far comprendere tale disagio a chi guarda, oppure chiudere in maniera annacquata, in un modo tale per cui, dopo il grande cataclisma, la vita ricomincia e la speranza non muore mai?
Finire senza un accenno alla speranza era il modo per lasciare inquieto lo spettatore attento. E quello ancor più attento non avrebbe potuto non porsi una domanda.
Per quanto ci riguarda, noi, popolo che deriva da una terra martoriata fin dal trattato di Campoformio, la speranza è stata rappresentata dai volti e dalle mani di quelle poche persone che nella storia ci hanno riconosciuto. La speranza ultima, per noi, è stata la fede che ci è stata tramandata dai nostri padri, vissuta non in maniera bigotta, ma talmente radicata nel tessuto da dover essere estirpata da un'ideologia che non ne ammetteva la possibilità. Fossimo rimasti tutti nelle città dalla quale hanno perseguitato le nostre famiglie, l'Europa avrebbe avuto un'altra Polonia.
Avete idea a quante persone abbiamo tenuto la mano nella loro ultima ora e quanti di questi, andandosene, invocavano la loro Terra, chiedendo una giustizia umana mai assaporata in vita? Avete idea quante di queste persone sradicate, umanamente travolte, eppure dalla schiena dritta, in punto di morte non abbiano mai rinnegato la speranza?
La speranza è endemica nella storia del nostro popolo. Così come lo è la prospettiva. Se non fosse così non saremmo qui, dopo più di 70 anni, a chiedere con insistenza che ci vengano riconosciuti tutti quei diritti ampiamente a noi negati, ma dei quali non si pensa minimamente di privare non dico altre tipologie umane, ma gli animali!
La scelta artistica è stata quella di chiudere un film cercando di suscitare un senso di disagio nello spettatore. Un senso che rimandasse a quanto, oggi (non ieri), patito per diritti che a fatica si cerca di far emergere tra un'emergenza ed una finanziaria, tra un terremoto ed un carosello di bassa politica.
Voi avete colto la mancanza di una simile speranza ed infatti avreste auspicato che il film terminasse in maniera diversa. Eppure quel film non è ancora terminato e continua nella nostra vita, nella nostra testimonianza, nella nostra speranza che non muore perché siamo convinti che, alla fine, la giustizia trionfa.
Un'ultima chiosa.
Giustamente nella Vostra recensione citate un grande personaggio, il beato Carlo d'Austria: "un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica", come disse di lui San Giovanni Paolo II.
La Grazia divina soffia dove vuole e ha soffiato sulla casa d'Austria, la stessa che, con Francesco Giuseppe, immediato predecessore di Carlo, il 12 novembre 1866 statuì l'odio verso l'etnia italiana-italofona di Istria e Dalmazia, insediati colà da prima della Seconda Guerra Punica. In quel giorno, nel Consiglio della Corona di Austria ed Ungheria, venne stabilito che: "Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l'influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici [la Pubblica Amministrazione, diremmo oggi, n.d.r], giudiziari [la Magistratura, diremmo oggi, n.d.r], dei maestri [l'Istruzione, diremmo oggi, n.d.r] come pure con l'influenza della stampa [i media, diremmo oggi, n.d.r], si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale [Istria e Fiume, n.d.r.] per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno".
Forse Carlo d'Austria è stato beatificato proprio perché nella sua vita ha ripudiato questo modo di fare politica. Eppure, fu proprio quell'odio, scatenato dalla famiglia alla quale Carlo apparteneva, che alimentò la v
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