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Giuseppe Ferraris di Castelnovetto

Giuseppe Ferraris di Castelnovetto
Nov 16, 2023 · 9m 23s

voce narrante Antonio Maria Porretti Mi chiamo Giuseppe Ferraris, figlio del fu misuratore Nicola, sono notaio causidico e sono sempre vissuto nel mio paese natale della Lomellina, ma in Diocesi...

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voce narrante Antonio Maria Porretti

Mi chiamo Giuseppe Ferraris, figlio del fu misuratore Nicola, sono notaio causidico e sono sempre vissuto nel mio paese natale della Lomellina, ma in Diocesi di Vercelli, Castelnovetto, ove morii il 13 settembre 1819. Pochi mesi prima, l'11 marzo, avevo fatto testamento, nominando mio erede universale l'Ospedale di Vercelli e lasciando l'usufrutto a mia moglie Clara Lavezzi. Così scrissi, nella motivazione ad onore dell'ospedale: “Durante la mia vita, ho riconosciuto la carità usata dai vostri Amministratori, persone degne della più grande lode, verso i poveri di Castelnovetto, che fecero ritirare e curare in detto luogo pio; onde continuino anche per l'avvenire a praticare il medesimo”. Questo patrimonio, di molte terre e due case in Castelnovetto, più i beni della mia dimora ammontavano nel complesso a lire 27.500. Mi duole molto che, per entrare in possesso della cospicua eredità, l'Ospedale abbia però dovuto affrontare per anni non poche controversie con i miei familiari, i miei più intimi! Mio fratello Francesco Antonio, Sacerdote nonché cappellano corale della cattedrale di Novara, e una delle mie tre sorelle, Cristina, sposata a Giuseppe Cotta, flebotomo. La lite era iniziata con me in vita, giacché i due contestavano i maggior beni a me derivanti dalla divisione dell'eredità paterna. Ebbene, avevo pagato io per tutti gli oneri dell'eredità, per Lire 3.000 antiche di Piemonte, e i due edifici lasciati da nostro padre in stato rovinoso fui io a rifabbricarli, io pagai tutti i debiti che lui aveva lasciato, io, coi proventi della mia professione di notaio. All'opposto, mio fratello il sacerdote, che avevo mantenuto agli studi in Vercelli fino a quando assunse il sacerdozio, consumò sempre ogni suo guadagno in divertimenti, in inutili viaggi in paesi lontani e in altri svaghi di puro lusso e di niun vantaggio. E che dire di mia sorella Cristina? Pur essendo ammogliata, la mantenni con me, nella casa paterna, unitamente alla figlia e feci sempre amministrare da lei la sostanza comune. Non solo, ma si può affermare che ho mantenuto io in stato civile tutta la povera famiglia Cotta; educai infatti io, con grave spesa e ben al di sopra della loro condizione, gli altri tre figli maschi. Li portai a buon punto degli studi; nell'anno della mia morte il maggiore si era già laureato a Pavia, aveva superato l'esame di procuratore ed era prossimo a sostenere quello da notaio; il secondogenito era in Pavia studente di Medicina e l'ultimo in Filosofia. Anche mia moglie Clara finì per dare problemi al mio erede universale; a sette anni dalla mia morte, nel maggio del 1826, fece supplica perché l'ospedale mantenesse l'usufrutto dell'eredità anche nel nuovo stato coniugale. Già..., si voleva risposare con tale Giovanni Barone e nonostante il mio testamento ordinasse espressamente di far cessare l'usufrutto di Lire 1.200 di Milano nel caso di nuovo matrimonio, corrispondendole solo un'ultima somma di Lire 600, lei tentò di mantenere il suo beneficio, assicurando l'Ospedale che, con l'assistenza del futuro marito, a sue spese avrebbe conservato in buon essere i caseggiati, come pure il marito avrebbe coltivato i terreni da buon padre di famiglia. L'Ospedale, nella sua magnanimità, propose di darle vita natural durante Lire 800 di Milano, fate voi un po' i conti, nonostante volesse passare ad altre nozze. Non so se fu per il trascinarsi di queste controversie o per qualche altra ragione, che io ebbi commissionati dall'Ospedale ben due ritratti. Del primo, più antico, non so dirvi l'autore. Del secondo ritratto, nel quale ora mi vedete effigiato, fu decisa la realizzazione quasi un cinquantennio dopo la mia morte, cioè il 13 agosto del 1866. Nella stessa seduta fu determinato di affidare l'esecuzione del mio ritratto, insieme a quella di altri due benefattori vissuti molto dopo di me, Andrea Piana e Salvator Levi. I lavori furono affidati ai pittori Costa e Narducci. Si! Proprio quel Pietro Narducci che tanti benefattori aveva effigiato per la Ca' Granda, l'Ospedale di Milano, e che dal 1841 si era trasferito a Vercelli in qualità di professore di disegno presso il locale Istituto di Belle Arti.
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Author Città di Vercelli
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