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Yasuhiro Ogawa e l'arte del Wabi Sabi

Yasuhiro Ogawa e l'arte del Wabi Sabi
Jun 3, 2021 · 13m 59s

Nel mio orto nascono pomodori che nessun supermercato sarebbe disposto a mettere sui suoi banchi. Sono bruttini, non troppo grandi, con delle macchioline sulla buccia dove qualche uccello ha dato...

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Nel mio orto nascono pomodori che nessun supermercato sarebbe disposto a mettere sui suoi banchi. Sono bruttini, non troppo grandi, con delle macchioline sulla buccia dove qualche uccello ha dato una o due beccate. Non ce n'è uno uguale all'altro. Eppure se li assaggi sono non buoni, sono buonissimi. E non lo dico perché vengono dal mio orto, ma perché è proprio un fatto oggettivo.Sarebbe improponibile, commercialmente, produrli su una scala vendibile e certamente non incontrerebbero il gusto di molti. Cosí difformi e sconclusionati. Ma per me vanno bene.Ci ho messo anni per arrivare a questo livello nella coltivazione della più famosa delle solanacee, ma adesso li produco con soddisfazione e li faccio per me e per i miei amici. Quando sono in un'insalata ti sfido a vedere che non sono proprio rotondi o geometricamente bislunghi. Yasuhiro Ogawa scatta fotografie che sono come i miei pomodori. A prima vista piene di piccoli difetti, spaiate, non conformi, scure, cupe, bagnate, poco invitanti. Eppure più le guardo più mi accorgo che hanno sapore, personalità, carattere, respiro.Non le troverò certamente sulle copertine delle riviste di moda o sul National Geographic, ambienti che cercano e richiedono un diverso tipo di fotografia, ma una volta sulla mia tavola (o meglio, tavolozza) visiva, mi basta poco per convincermi che vale la pena gustarle. Assaporarle con calma.Ogawa è un fotografo giapponese che fa dell'estetica Wabi Sabi il suo punto di forza.E qui forse serve una breve spiegazione.Non posso definirmi esperto di cose giapponesi, ma ho visto tanti tanti film giapponesi di registi straordinari come Ozu, Kurosawa, Kitano, Mizoguchi in gioventù ho letto anche molti autori tipo Murakami, Mishima, Ōe , Matsumoto e anche altri che adesso non riesco nemmeno ad elencare.E non dimentichiamo la mole impressionante di anime e manga di cui ho fruito e fruisco. Sono cresciuto, praticamente, allevato dalla cultura giapponese.Questo, ripeto, non fa certamente di me un esperto, ma alcune cose penso di averle colte ed una di queste è che in Giappone vivono delle contraddizioni. Da un lato ad esempio ci sono personaggi come Jiro Ono, il più grande cuoco di sushi del mondo che in uno scantinato di Tokyo, vicino alla stazione di Ginza ha il suo ristorante.Si chiama Sukiyabashi Jiro. Se sei occidentale devi essere accompagnato da una guida locale. Ci puoi stare massimo 20 minuti. Alla fine paghi 250 euro e te ne vai avendo mangiato il migliore sushi mai preparato.Jiro Ono ha passato la sua vita, 96 anni ad oggi, perfezionando giorno dopo giorno la sua arte. Qualcosa di ossessivo, di maniacale. Qualcosa che non consente errori che non ammette imperfezioni. Ogni giorno, per 80 anni ha migliorato qualcosa per non lasciare nulla al caso. Accanto a tanti esempi di questo tipo di filosofica ricerca della perfezione ci sono però tanti esempi di accettazione di quelle che sono le imperfezioni.La filosofia Wabi Sabi appunto.Una teiera sbeccata e ricucita, un giardino perfettamente rastrellato dove sono cadute delle foglie di acero, una costruzione cadente, un tempio abbandonato. Ognuna di queste immagini mentali contiene, almeno in parte un sapore Wabi Sabi.In occidente abbiamo quasi l'ossessione per le regole ed il rigore formale.In fotografia non parliamone. La proporzione aurea, la regola dei terzi, la simmetria, l'ordine, la prospettiva. Abbiamo strumenti che mostrano una griglia nel mirino per aiutarci a rispettarle. Nei circoli fotografici ti misurano le proporzioni con la squadra e il goniometro.Ci piace che esitano relazioni matematiche tra le cose, ci piace pensare che le cose belle siano eterne. La matematica è il linguaggio della natura e solo ciò che rispetta il ritmo armonico della matematica ha il sigillo dell'estetica.Abbiamo il gusto per il ritmico ripetersi dei pattern. Cerchiamo conferme. Amiamo l'eterna consuetudine dello sfarzo e della regolarità.L'estetica Giapponese, invece, è profondamente diversa. Delle cose se ne apprezza molto di più il lato imperfetto, rustico, melanconico.Non c'è il culto del "kalòs kai agathòs", il bello e buono, l'invincibile, l'indomito, il giusto. L'estetica giapponese in molti casi si basa invece sul grande rispetto per quello che è caduco, fragile, invecchiato, sgualcito.La convinzione è che ci sia sempre grande bellezza nel portare i segni del tempo e nell'essere di conseguenza unici, perché il tempo lavora su ognuno di noi in modo differente.Ecco quindi che in quest'ottica iniziamo a capire meglio la fotografia di Yasuhiro Ogawa. I suoi neri profondi accostati a bianchi sparati sono il risultato di questo gusto dell'imperfezione e dell'unicità.Nella fotografia di Ogawa non ci sono regole, non c'è nulla che non si possa fare, di certo non si cercano simmetrie né si trovano regolarità.La copertina del suo primo libro, Shimagatari, è una immagine sgranata di una battigia. L'immagine è pendente. I più libri più moderni chiamerebbero quell'inclinazione della fotocamera "Dutch Angle",ma è solo un eufemismo per "Storta". Eppure Shimagatari è un libro per il quale di porta grande rispetto, nel quale si capisce perfettamente che lo scopo di Ogawa non è quello di abbellire, addobbare, razionalizzare. Lo scopo di Ogawa è quello di trasmettere la malinconia, se vogliamo anche il rimpianto, per uno stile di vita divorato dalla modernità.Intere isole la cui popolazione ormai è composta unicamente da anziani. I giovani sono fuggiti nelle città alla ricerca di un corporate job, e nei villaggi è rimasto solo il senso di sconfitta. Ma una sconfitta dignitosa, anzi, una sconfitta solenne. Le altalene abbandonate, i giardini incolti, la ruggine, gli autobus vuoti, le finestre senza più alcuno scopo delle case abbandonate., le strade interrotte, i traghetti solitari, le fotografie degli avi lasciate al loro destino. Eppure accanto a questo umano sfacelo Ogawa riesce a mettere il rifiorire della natura. Quell'immane forza che pian piano si riprenderà tutto. Una natura che ci ha messi qui e che ci toglierà di mezzo a tempo debito.E nell'unione di questi due elementi contrastanti, la decadenza e la rinascita, lo spirito Wabi Sabi di Ogawa esce prepotente e luminosamente oscuro.Ogni cosa è nobilitata dal suo passato. Quel bus abbandonato ha storie da raccontare e grazie ad Yasuhiro, forse per l'ultima volta, ne sta raccontando una nuova. L'erba alta ci nasconde il sentiero dove camminare e se ci si abbandona alla malinconia forse si capisce che non c'è mai stato un vero e proprio sentiero, ma solo una lotta dell'uomo che ha deciso, per un po', di impegnarsi molto affinché la natura non prendesse possesso di quei metri tortuosi.Appena si smette di lottare la natura si riprende quel che è suo e ci ricorda chi comanda.Shimagatari, dicevo, è un opera straordinaria, ma è solo uno dei tanti esempi di come il gusto per la malinconia di Ogawa riescono a rendere interessanti cose all'apparenza banali.Nella serie "Cascade" ad esempio Ogawa ci porta su un altro livello di lettura del ricordo, di celebrazione dell'assenza.Alla morte della madre l'autore ritorna nella casa della sua infanzia e trova un filmato in 8mm che la madre aveva registrato di lui da piccolo. Recupera un proiettore e inizia a guardare il filmato.Ogni tanto scatta una fotografia elle immagini proiettate sul muro.Il racconto che ne esce è una storia di fantasmi. Quello della madre, morta per davvero da poco, quello di se stesso bambino morto figurativamente anni prima, Quello dei fiori, dei bambini, degli insetti che popolavano il ricordo della madre impresso nella pellicola ed infine quello del filmato stesso i cui singoli fotogrammi si sommano nel tempo di scatto della fotocamera di Yasuhiro Ogawa a formare qualcosa di diverso. È una vera e propria matrioska temporale che potrebbe generare anche paradossi se lo stile con il quale è stata raccontata non mettesse subito in chiaro il senso di tutto questo. Ancora una volta la caducità, la transitorietà, l'assenza di qualcosa e i segni che questo qualcosa ha lasciato nel nostro presente. Cicatrici che amiamo sfiorare, quasi come un tic nervoso. Cicatrici che danno senso alla nostra stessa vita, perché rappresentano l'atto stesso di averla vissuta.E veniamo ora all'ultimo lavoro di Ogawa: The Dreaming.In questo libro sono raccolte alcune immagini che Yasuhiro ha scattato durante i primi anni della sua carriera fotografica in giro per il mondo. Sono immagini che apparentemente hanno uno stile molto diverso da quelle degli altri suoi lavori più maturi, ma in realtà ci riportano nello stesso filone. Infatti questo libro nasce quando Ogawa, arrivato al mezzo secolo, si guarda indietro e apre i suoi archivi e vede il tempo che è passato nella sua stessa fotografia e decide di lavorare alle sue vecchie fotografie e ci mostra, senza nessun pudore, i segni del tempo sul suo stile. È come mostrarci il filmino di sua madre, solo che stavolta sono i fotogrammi di una carriera agli albori.Le immagini sono riprese e ritrattate da capo in camera oscura, aggiungendo quella che è la sensibilità corrente di Ogawa, reinterpretando i racconti che aveva già raccontato, cercando di migliorare i gesti del passato, cercando di raffinare il più possibile una tecnica, cosa che lo porta, per chiudere il cerchio ad assomigliare a Jiro Ono nel tentativo di perfezionare il più possibile la propria arte.La ricerca dell'eccellenza da parte di Ogawa nel suo campo non è difforme da quella del re del sushi. Per quanto strano ci possa sembrare. Laddove infatti sembrerebbe che non ci sia spazio per l'imperfezione, per la difformità dei gesti.Laddove si passa una vita in tagli ripetuti nelle carni dei pesci e nella ricerca maniacale di quegli ingredienti che rendono il sushi di Jiro, semplicemente, perfetto, ecco che ci accorgiamo di una cosa importantissima.Non esiste un pesce palla uguale ad una altro, non esiste un chicco di riso che sia nato due volte sulla terra e non esiste un boccone perfetto, perché non puoi ripetere lo stesso
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Author Alessio Bottiroli
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