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I podcast de Il diario del lavoro

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9 MAY 2025 · Il mio maestro, Gino Giugni, grande giuslavorista, soleva dire che la contrattazione era un vero passepartout, apriva qualsiasi porta, consentiva di puntare in alto con buone speranze di riuscire. Per tanti anni è stato così, con la contrattazione sono stati colti risultati importanti, a volte esaltanti. La pazienza, la propensione al dialogo, l’ottimismo ci hanno accompagnato per lunghi momenti felici. Da un po’ di tempo sento però che qualcosa non funziona più, come se il meccanismo si fosse inceppato, ci fosse un po’ di ruggine, una desuetudine di qualche operatore. I risultati sono meno brillanti, più rari, le aree felici si sono rimpicciolite. Il quadro si fa nero.
Forse è solo un po’ di stanchezza, ma qualcosa sembra non funzionare più come dovrebbe. Le difficoltà a qualche tavolo di trattativa appaiono più ostiche del normale. Forse è un’impressione, ma persistente, e spaventa. Che i metalmeccanici siano arenati da sei mesi o più, che la trattativa per il rinnovo del loro contratto nazionale di lavoro sia bloccata può anche essere normale, si tratta di una vertenza molto difficile e la situazione economica e produttiva del settore è in cattive acque.
Ma lo stesso questo ci sembra un campanello di allarme che non dovremmo ignorare e nemmeno sottovalutare. Anche perché oggettivamente attorno non si vedono panorami felici, come ha sottolineato il Presidente Sergio Mattarella alla vigilia del Primo Maggio. La precarietà non arretra, semmai guadagna terreno. I salari arrancano, perdono terreno nei confronti di quelli di altri paesi. L’occupazione aumenta, ma si avvicina alla povertà anche chi lavora. Cresce soprattutto l’insicurezza, che è il male peggiore perché rende impotenti, impedisce di programmarsi la vita, di puntare a qualcosa di migliore. E si spegne la speranza, l’ottimismo, a catena anche la voglia di fare, di sperimentare.
Eravamo in crisi all’inizio di questi anni 20, la pandemia ci ha dato un brutto colpo, sostanzialmente non ci siamo ripresi. La condizione del lavoro peggiora rapidamente e non ci sembra onestamente che qualcuno tenti di fare qualcosa. Tentativi di reazione ci sono, è vero, qui e lì, ma isolati, fuori contesto, non in grado, purtroppo, di cogliere risultati di rilievo. I soggetti deputati a questo compito latitano.
Il governo, questo governo, non ci prova neppure. Ha pochi margini di manovra, ma non li sfrutta, non tenta nulla. Ha altre priorità, guarda altrove. La concertazione è sparita, non si vedono nemmeno forme di dialogo sociale, gli annunci di cambiamento lasciano il vuoto. Le aree che l’esecutivo vuole evidentemente proteggere sono altre. I partiti dell’opposizione sono divisi, tentano di prendere qualche iniziativa, fanno dei tentativi, ma l’impressione è che siano loro per primi a non crederci fino in fondo. Continuare a dire che la somma delle forze che si oppongono alla destra è superiore al 50% non porta a nessuna parte, perché saranno anche di più, ma non riescono a unirsi, a trovare, anche solo a cercare un programma comune sul quale costruire alleanze stabili, soprattutto durature.
Le parti sociali non consolano. I sindacati sono divisi anche loro e non fanno nulla per annullare le distanze. L’immagine del Primo Maggio con i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil in tre piazze distanti tra loro, senza nessun vero collegamento ideale, è stata sconfortante. Erano tutti uniti nella battaglia contro gli incidenti sul lavoro, ma i cuori erano altrove, pericolosamente. Gli imprenditori non sembrano in grado di imprimere una svolta a questa linea. La decisione di Confindustria di tenere l’assemblea annuale non a Roma come negli ultimi 80 anni, ma a Bologna, guest star Giorgia Meloni, la dice lunga sugli obiettivi che la confederazione degli industriali si è data e sulle alleanze alle quali punta. Difficile anche dargli torto, perché il panorama non spinge all’ottimismo, fare programmi capaci di incidere su questa realtà appare impegno vuoto, inutile.
Il rischio che il paese corre è che queste insicurezze, queste insufficienze sociali e politiche si sommino e si rafforzino vicendevolmente. Perché sarebbe allora in pericolo la coesione sociale, la disgregazione potrebbe generare disastri che nessuno sarebbe in grado di gestire. Forse il panorama non è così fosco, forse il paese è ancora in grado di produrre una svolta, forse questo è solo lo sfogo di un momento di incertezza, importante però è non abbassare la guardia, essere vigili e accorti. Massimo Mascini
9 MAY 2025 · Papa Francesco sarà ricordato certamente per le sue battaglie contro la guerra e a difesa dell’ambiente, a noi piace farlo per la sua grande attenzione al lavoro. Amava sottolineare che Giuseppe e Gesù erano falegnami, che gli apostoli, per lo più, erano pescatori, che suo padre era stato falegname e lui stesso muratore. Il lavoro, diceva, offre dignità al lavoratore, la peggiore povertà è quella di chi non riesce a guadagnare il pane per la propria famiglia, lavoro vuol dire progettare il proprio futuro. E’ amico dell’uomo, affermava, perché è un bisogno insopprimibile della persona. E credeva che tutti avessero diritto a un lavoro, come anche che fosse un delitto defraudare la retribuzione degli operai. E combatteva le troppe offese che gli vengono portate: il lavoro in nero, il caporalato, quelli che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Il lavoro precario, diceva, è immorale, è una ferita aperta.
L’amore per il lavoro lo portava all’attenzione verso chi non lo aveva e, quindi, agli ultimi, a quelli che chiamava gli scarti, perché così erano considerati da una società sorda e chiusa. I poveri, i diseredati, gli immigrati. Al centro della nostra attenzione, diceva, deve esserci l’uomo, oggi c’è il denaro. E per questo non amava la meritocrazia, lo considerava un disvalore, perché snatura e perverte una bellissima parola, il merito. Considerano il povero, affermava, demeritevole, quindi colpevole della sua situazione, anche se non ne porta alcuna responsabilità. E allo stesso modo, argomentava, il ricco è esentato dall’intervenire in aiuto ai bisognosi, perché non è colpa o responsabilità sua lo stato di povertà o il disagio degli altri.
Era contro tutti i muri, quelli che sono eretti tra gli stati per tenere lontano i poveri e i diseredati, ma anche quelli che tengono lontani chi la pensa in un altro modo. La sua filosofia era il dialogo, che, diceva, significa fare un tratto di strada assieme, fare delle cose assieme. Per questo voleva stare sempre in mezzo alla gente, privilegiando i poveri e gli ultimi. Perché solo così, diceva, è possibile vedere le cose con i loro occhi e capire i loro bisogni, le loro esigenze.
Amava il lavoro e amava il sindacato. Una bella parola, affermava, nata dalla fusione di due parole greche, dike, giustizia, e syn, insieme. Sindacato che però è esposto a rischi, a quello di smarrire la propria vocazione, il proprio compito, quello di dare voce a chi non ce l’ha. Il sindacato, amava affermare, è una sentinella sul muro della città del lavoro e deve badare a chi è dentro la città, ma anche a chi ne è tenuto fuori. Proteggere i lavoratori e i pensionati, diceva ai sindacalisti, è bene, ma è solo la metà del vostro dovere, siete tenuti a difendere anche gli esclusi, chi i diritti ancora non li ha. Può accadere, diceva, che la società non comprenda il sindacato, ma spesso ciò accade perché non lo vede lottare abbastanza nel “luogo dei diritti del non ancora”, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati dal lavoro, tra gli immigrati, i poveri, coloro che vivono sotto le mura della città del lavoro.
Accusava il sindacato di essere a volte troppo simile ai partiti politici. E accusava il capitalismo per avere troppe volte dimenticato la natura sociale dell’economia. Ma non era contro gli imprenditori. L’imprenditore, diceva, è una figura fondamentale per una buona economia. Il problema nasce quando si trasforma in uno speculatore, e finisce per penalizzare anche gli onesti. La vocazione dell’imprenditore, diceva, è nobile se si mette a servizio del lavoro, in primo luogo offrendo occupazione: non un’occupazione qualsiasi, ma un lavoro che metta al centro la persona e la sua dignità. Il lavoro, affermava, è dignità. Adesso Papa Francesco non c’è più. Ci resta questa grande eredità e la speranza che non vada dispersa.
Massimo Mascini
14 APR 2025 · Nel giro di poche settimane la Cisl ha dato vita a due fondazioni, una intestata a Pierre Carniti, l’altra a Franco Marini. Due grandi sindacalisti, due campioni, portatori di culture leggermente diverse, che si sono combattuti a lungo, per arrivare infine a una salda, duratura e proficua alleanza. La prima fondazione, quella intitolata a Carniti, sarà guidata da Roberto Benaglia, che è stato segretario generale dei metalmeccanici della Cisl. La seconda sarà condotta da Luigi Sbarra, già segretario generale della confederazione.
Carniti e Marini erano cresciuti culturalmente alla scuola della Cisl, che ha tuttora a Fiesole, sulle colline sopra Firenze, un centro di formazione di grande levatura. Parteciparono al corso lungo, biennale, assieme ad altri giovani cislini destinati a incarichi di grande prestigio nella confederazione. La Cisl in quegli anni, in particolare in quelli successivi alla loro partecipazione alla scuola di Fiesole, era divisa in due parti, che si combattevano aspramente. Una guardava avanti, al futuro, voleva sperimentare nuove strade, l’altra non amava le fughe in avanti, preferiva i piccoli passi, non le erano congeniali i salti.
Pierre Carniti militava nella prima e non ebbe mai paura del nuovo, dell’inconnue. Crebbe culturalmente nei primi anni Sessanta, quando era segretario generale della Fim di Milano. Ebbe due fortunate intuizioni. La prima fu quella di rappresentare i più poveri, quelli che avevano meno diritti, ma grandi ambizioni. L’Italia negli anni della grande trasformazione industriale aveva portato dal profondo Sud alle fabbriche del Nord centinaia di migliaia di giovani lavoratori, i “terroni” che, appunto, avevano meno diritti, meno lavoro, meno garanzie. Gli “operai massa”, come li chiamarono. La Cgil guardava con maggiore interesse a quella che veniva chiamata l’aristocrazia operaia, i più professionalizzati, gli specializzati. Carniti si rivolse agli ultimi, direbbe oggi Papa Francesco, li cercò, li iscrisse, con loro divenne più forte.
L’altra intuizione fu quella di cercare l’amicizia e la collaborazione di un buon numero di giovani intellettuali. Economisti, sociologi, giuslavoristi tra i migliori, che per tutta la vita gli fornirono le basi delle sue teorie, delle sue azioni. Forte di questi due assist Carniti si gettò nella mischia sindacale. Ed ebbe tante vittorie. Quella nella battaglia degli elettromeccanici che si batterono per sancire il diritto alla contrattazione aziendale. Quella per l’unità sindacale, avvicinando gli altri sindacati dei metalmeccanici, la Fiom e la Uilm. Quella per l’autonomia del sindacato dalla politica, lottando per sancire l’incompatibilità tra incarichi politici e sindacali, che allora erano una regola.
11 APR 2025 · Non mancano gli argomenti validi a spiegare perché in Italia i salari stagnino. Anzi, diminuiscano, perché la verità è che, progressivamente, ma nemmeno tanto, le retribuzioni stanno perdendo potere di acquisto impoverendo i lavoratori. Ci sono state le tante crisi economiche, c’è stata la pandemia, ci sono le guerre e c’è l’esplosione dell’inflazione, che tutti credevamo sopita e che invece ha prepotentemente rialzato la testa.
Giustamente Nunzia Penelope su Il diario del lavoro ha ricordato come i sindacati, stretti in tante difficoltà, per salvare l’occupazione e il lavoro, siano stati costretti alla moderazione salariale. Il problema è che la moderazione salariale porta le imprese a competere sul basso costo del lavoro, a disinvestire nella ricerca, a finire così nella parte bassa della catena della produzione. Maurizio Del Conte ci ha spiegato molto bene in una recente intervista che in questo modo si cade nella bassa produttività, nei bassi salari, avvicinando sempre più questi ultimi alla soglia della povertà. Al punto che il confine è sempre più stretto e l’insofferenza cresce. Ormai è a rischio la tenuta sociale, certamente è in crisi la coesione sociale.
Non c’è bisogno di insistere sul pericolo che corre la democrazia per capire che forse è arrivato il momento di mettere le mani nei meccanismi della contrattazione, perché sono questi che ci conducono verso la povertà. Sarebbe ora, per esempio, di rimediare a un errore di fondo commesso dalle parti sociali qualche anno fa. Per la precisione nel 2009, quando si raggiunse un accordo tra governo e parti sociali per regolare la crescita salariale. Compito affidato ai contratti nazionali di categoria che dovevano far aumentare i salari sulla base dell’inflazione secondo il parametro dell’Ipca.
Quell’accordo non fu firmato dalla Cgil, ma le intese successive, che quel parametro accettavano, portavano la firma della sua segretaria generale Susanna Camusso. Di moderazione salariale si parlava anche prima, ma la grande intesa del 1993, che chiuse l’era della scala mobile, affidava la crescita dei salari ai contratti nazionali, con un’importante apertura però, perché era previsto che gli aumenti salariali indicati dai rinnovi contrattuali potessero essere anche superiori all’inflazione, per consentire così una distribuzione dei proventi della produttività.
In realtà i rinnovi contrattuali successivi al 1993 non andarono mai al di là dell’inflazione e l’intesa del 2009 stabilì che quella linea non doveva mai essere superata. E andò anche oltre, perché, riferendosi all’Ipca, stabilì che l’aumento dei minimi salariali doveva seguire l’andamento dell’inflazione e che nel computo non si doveva tener conto degli aumenti dei prezzi dei prodotti energetici importati. In questo modo si condannarono i salari a una progressiva perdita di potere di acquisto. Probabilmente non si dette allora molto peso a questa esclusione, ma gli anni successivi hanno dimostrato che la decrescita sarebbe stata anche molto forte. Il Patto della fabbrica del 2018 confermò il meccanismo.
24 MAR 2025 · Un’altra grande categoria di lavoratori si appresta ad affrontare lo scoglio del rinnovo del contratto nazionale di lavoro, quella dei chimici. L’iter è appena avviato con l’ok delle segreterie sindacali a una bozza di piattaforma rivendicativa, oggetto di una discussione tra i lavoratori che terminerà alla fine del mese di marzo. Ma il dato più importante è già stato definito, i vertici del sindacato di settore hanno deciso che la richiesta salariale sarà di 305 euro mensili per il livello di riferimento. Una cifra consistente, superiore a quella richiesta dai metalmeccanici che, proprio sul tema del salario, hanno incontrato la forte resistenza degli imprenditori che ha portato al blocco della vertenza.
I sindacati dei chimici però sperano di non avere troppi problemi, anzi contano di confermare la loro tradizione, che è quella di chiudere velocemente le vertenze dei rinnovi contrattuali. Nelle passate occasioni, infatti, il contratto di lavoro è stato rinnovato molto velocemente, a volte dopo solo due sessioni, una volta già al primo incontro. La velocità non è dovuta solo alla capacità delle parti, ma a una rodata consuetudine: le due parti, sindacati e imprese, appena firmato l’accordo per il rinnovo del contratto hanno sempre ripreso a parlarsi, a vagliare richieste e risposte, per arrivare già pronti all’intesa. Che non è mai facile, naturalmente, ma se costruita con pazienza e attenzione, si trasforma in un impegno abbordabile.
È una storia antica. Federchimica, la federazione che raggruppa le aziende del settore, già nel 1986 aveva strutturato un Osservatorio chimico, un organismo bilaterale, del quale facevano parte i rappresentanti delle aziende e del sindacato, che istituzionalizzò una prassi di consultazione periodica tra le parti. Si discuteva un po’ di tutto: salario, orario, classificazione, diritti di informazione, investimenti, innovazione tecnologica, politiche attive del lavoro. Le parti si abituarono così a discutere senza animosità, realizzando una consuetudine al confronto che ha evitato negli anni incomprensioni e malintesi.
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18 MAR 2025 · Non è mai stato facile il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Ma stavolta sembra davvero un’impresa molto complessa. La vertenza è ferma da quattro mesi, ma soprattutto sembra essere entrata in un vicolo cieco nel quale tutti sembrano avere ragione, quindi, alla fine si trovano tutti dalla parte sbagliata.
I problemi sono iniziati quando è stato affrontato il capitolo del salario, perché i sindacati hanno chiesto un aumento dei minimi retributivi di un certo spessore. Alla base della loro richiesta il fatto che i salari italiani sono tra i più bassi di quelli praticati nei paesi altamente industrializzati. E poi l’inflazione degli scorsi anni ha falcidiato il potere di acquisto. Per fortuna i meccanici avevano scelto una particolare modalità di calcolo degli aumenti, che ha consentito loro di recuperare buona parte di quanto perso, ma questo non significa che nuotino nell’oro. Ma soprattutto i sindacati della categoria sanno, e lo dicono a gran voce, che una crescita dei salari farebbe bene al sistema Italia, perché consentirebbe di aggredire uno dei mali più perniciosi della nostra economia, la debolezza della domanda interna.
Aumentate i salari come vi abbiamo chiesto, affermano i sindacalisti agli imprenditori, e questo aiuterà la ripresa dell’economia. E in aggiunta chiedono una riduzione dell’orario di lavoro, che potrebbe far crescere l’occupazione, quindi la domanda e anche le entrate fiscali. Sarebbe un modo, affermano, per far ripartire il sistema, rafforzandolo. Il ragionamento non fa una piega, come confermano fior di economisti, ma la domanda vera è un’altra, il sistema della produzione se lo può permettere?
12 MAR 2025 · L’Europa umiliata, per questo più debole, esposta ai venti, incerta sul proprio futuro. Una lettura facile di fronte alla brutalità, l’arroganza, la mancanza di equilibrio che vengono dagli Stati Uniti. Eppure, il quadro potrebbe essere diverso. Un mese fa o poco più, Maurizio Ricci in un articolo su Il diario del lavoro aveva affermato che i pericoli che dalle prime dichiarazioni di Donald Trump si palesavano, forse avrebbero potuto trasformarsi in un’opportunità di crescita politica, ma anche economica, per l’Europa.
Se gli Stati Uniti effettivamente, argomentava Ricci, si ritraggono dalla battaglia per il green e smettono di guidare la transizione ecologica, freneranno naturalmente anche sulla crescita della tecnologia indispensabile per condurre quella battaglia. Se quel testimone fosse preso al volo dall’Europa, questa potrebbe tornare a essere leader della transizione con evidenti benefici economici. Lo stesso, aggiungeva, vale per la politica monetaria. Trump usa il dollaro come una clava per piegare il mondo ai suoi voleri, ma questa azione troppo decisa, troppo forte potrebbe spingere una serie, anche ampia, di paesi ad abbandonare il dollaro per cercare un’altra moneta di scambio. E in questo caso l’euro potrebbe essere una valida alternativa.
7 MAR 2025 · È sempre fuorviante giudicare gli avvenimenti sindacali con il metro della politica. Si fa presto a commettere errori, spesso anche madornali e, soprattutto, a insistere su questi errori. Un caso classico è l’affermazione secondo la quale Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, “fa politica”. Lui respinge con forza tale vulgata, sostenendo che è vero che fa politica, ma, a differenza di quanto dicono i suoi detrattori, fa politica sindacale. Un confronto con il governo sui temi della politica economica è certamente un atto politico, ma rientra decisamente nella politica sindacale. E invece tutti insistono ad affermare che il suo intento è prettamente politico, aggiungendo poi che alla fine si deciderà e passerà direttamente in, o meglio, a capo di un partito.
17 FEB 2025 · Cgil e Cisl sono ormai lontane, divise da programmi e pulsioni differenti, avviate su strade diverse che portano a mete lontane tra loro. Formalmente non è avvenuta alcuna rottura. Ma le parole pronunciate dalle due parti negli ultimi giorni sono chiare e non lasciano molto spazio all’ottimismo. La premier Giorgia Meloni, intervenendo alla kermesse di martedì della Cisl sulla partecipazione, è stata molto dura con la Cgil affermando che porta avanti una “visione conflittuale tossica”. Ma anche Luigi Sbarra, lo stesso giorno, mentre lasciava la propria confederazione, non è stato meno drastico. Ha parlato di “zavorra ideologica”, ma soprattutto ha detto senza mezze parole che ormai in Italia si contrappongono “due diverse concezioni di sindacato”, una che ha sposato l’antagonismo, l’altra che coltiva il riformismo. “Siamo di fronte a un bivio, ha detto scandendo le parole, e noi dobbiamo procedere spediti”.
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