Salari, povertà, produttività: è ora di un tagliando ai meccanismi della contrattazione, di Massimo Mascini

Apr 11, 2025 · 5m 21s
Salari, povertà, produttività: è ora di un tagliando ai meccanismi della contrattazione, di Massimo Mascini
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Non mancano gli argomenti validi a spiegare perché in Italia i salari stagnino. Anzi, diminuiscano, perché la verità è che, progressivamente, ma nemmeno tanto, le retribuzioni stanno perdendo potere di...

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Non mancano gli argomenti validi a spiegare perché in Italia i salari stagnino. Anzi, diminuiscano, perché la verità è che, progressivamente, ma nemmeno tanto, le retribuzioni stanno perdendo potere di acquisto impoverendo i lavoratori. Ci sono state le tante crisi economiche, c’è stata la pandemia, ci sono le guerre e c’è l’esplosione dell’inflazione, che tutti credevamo sopita e che invece ha prepotentemente rialzato la testa.


Giustamente Nunzia Penelope su Il diario del lavoro ha ricordato come i sindacati, stretti in tante difficoltà, per salvare l’occupazione e il lavoro, siano stati costretti alla moderazione salariale. Il problema è che la moderazione salariale porta le imprese a competere sul basso costo del lavoro, a disinvestire nella ricerca, a finire così nella parte bassa della catena della produzione. Maurizio Del Conte ci ha spiegato molto bene in una recente intervista che in questo modo si cade nella bassa produttività, nei bassi salari, avvicinando sempre più questi ultimi alla soglia della povertà. Al punto che il confine è sempre più stretto e l’insofferenza cresce. Ormai è a rischio la tenuta sociale, certamente è in crisi la coesione sociale.


Non c’è bisogno di insistere sul pericolo che corre la democrazia per capire che forse è arrivato il momento di mettere le mani nei meccanismi della contrattazione, perché sono questi che ci conducono verso la povertà. Sarebbe ora, per esempio, di rimediare a un errore di fondo commesso dalle parti sociali qualche anno fa. Per la precisione nel 2009, quando si raggiunse un accordo tra governo e parti sociali per regolare la crescita salariale. Compito affidato ai contratti nazionali di categoria che dovevano far aumentare i salari sulla base dell’inflazione secondo il parametro dell’Ipca.


Quell’accordo non fu firmato dalla Cgil, ma le intese successive, che quel parametro accettavano, portavano la firma della sua segretaria generale Susanna Camusso. Di moderazione salariale si parlava anche prima, ma la grande intesa del 1993, che chiuse l’era della scala mobile, affidava la crescita dei salari ai contratti nazionali, con un’importante apertura però, perché era previsto che gli aumenti salariali indicati dai rinnovi contrattuali potessero essere anche superiori all’inflazione, per consentire così una distribuzione dei proventi della produttività.


In realtà i rinnovi contrattuali successivi al 1993 non andarono mai al di là dell’inflazione e l’intesa del 2009 stabilì che quella linea non doveva mai essere superata. E andò anche oltre, perché, riferendosi all’Ipca, stabilì che l’aumento dei minimi salariali doveva seguire l’andamento dell’inflazione e che nel computo non si doveva tener conto degli aumenti dei prezzi dei prodotti energetici importati. In questo modo si condannarono i salari a una progressiva perdita di potere di acquisto. Probabilmente non si dette allora molto peso a questa esclusione, ma gli anni successivi hanno dimostrato che la decrescita sarebbe stata anche molto forte. Il Patto della fabbrica del 2018 confermò il meccanismo.
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